Dalla parte delle “radici”

Intervista al cuoco “Alimurgico” Giacinto de Rosario, crotonese, grande conoscitore e appassionato divulgatore di “tutto quello che si può mangiare, quando nulla resta da mangiare” prendendo quanto offre il mondo vegetale spontaneo e selvatico. Un tesoro ancora sconosciuto, e diffuso a piene mani in particolare in Calabria

di Roberto Messina

Giacinto De Rosario in una giornata di trekking\raccolta delle erbe

Immersi come siamo nelle cronache, ahinoi sempre più da incubo, delle produzioni estensive che desertificano, e degli allevamenti intensivi che veicolano virus, raccogliere da mangiare con le proprie mani è cosa che stupisce, affascina, sorprende, e potrebbe pure diventare di moda. Con ciò, ecco il gradito incontro e l’intervista con un vero cuoco “Alimurgico…” (termine spiegato più avanti). Dica la verità, sig. de Rosario, quanti Le hanno chiesto: “ma che roba è”? Si presenti, intanto, a chi ancora non la conosce.

Porto il nome di mio nonno a cui il suo paese, Montalto Uffugo, in provincia di Cosenza ha dedicato una strada. Sono nato nel ’52 a Catanzaro, ma con radici profonde a Crotone, quando il mondo era in bianco e nero… Sono andato sulla luna il 16 luglio del ‘69. con il cuore e l’entusiasmo di quegli anni. Liceo, poi Università, Medicina mai conclusa (gli ultimi 4 esami) per distrazioni ambientali… Mi mantenevo agli studi vendendo enciclopedie, comprando e vendendo pane, comprando e vendendo pietre preziose (gemmologo), restauratore di mobili, corniciaio… E ora, cucinando tutto questo, eccomi a voi come cuoco.

Alimurgico… Ne parliamo subito dopo. Intanto, per stare al tema, cosa vuol fare da grande?

Vedremo, c’è tempo…

Ritratto di Giovanni Targioni,
padre dell’Alimurgia e il frontespizio
del suo famoso libro

Oltre a cucinare, sappiamo che è impegnato in un gran lavoro di divulgazione in tv, in radio, in eventi in giro per l’Italia, tutto per la valorizzazione dell’Alimurgia e in particolare del patrimonio botanico e culturale calabrese. Poi, altrettanto seriamente, nell’organizzazione di una rete di “cuochi per la terra” e del “manifesto” ad essa associato. Quindi presidente della neonata, e prima, Associazione Alimurgica d’Italia, con sede a Fiumefreddo Bruzio (Cs). Nonché autore di un bel libro sull’argomento, in corso d’opera. Dunque, allora, si diceva… cosa significa definirsi cuoco Alimurgico?

Mi permetta di dividere la parola cuoco, da Alimurgico. E’ importante. Cuoco: con la definizione, secondo Oxford Language (la Bibbia di Google) di “Esperto nell’arte culinaria che provvede alla preparazione manipolazione e cottura dei cibi Per alberghi, ristoranti, ecc.”. (Familiare): persona che si occupa di far da mangiare… Come vede “far da mangiare” è la cosa che unisce, ma l’indirizzo è diverso. Negli anni 50/60 quando andavamo con le famiglie in trattoria o al ristorante per eventi davvero importanti, la cuoca (da Filomena) o il cuoco (da Antonio) non uscivano mai dalla cucina… e soprattutto ci davano lo stesso cibo che cucinava nostra madre o la nonna. Una continuità di contiguità assoluta. Oggi la mia ricerca, il mio interesse è congiungere ciò che in quelli anni è stato disgiunto, per tornare a “far da mangiare” nel più assoluto rispetto di quella contiguità alimentare. Quindi, Alimurgico: Alimurgia è creatura del medico naturalista Targioni-Tozzetti, del ‘700 fiorentino, che partendo da osservazioni sui propri concittadini i quali nonostante due carestie consecutive non pativano la fame più di tanto, li osservò (spiò, come direbbe Camilleri) uscire la mattina presto con sacchi vuoti e tornare più tardi con gli stessi pieni di erbe raccolte fuori le mura. Gli toccò, da scienziato, sistematizzare quella cultura, quella conoscenza “popolare”, ed editare da lì a poco (1767) il suo famoso libro: Alimurgia. Ovvero, tutto quello che si può mangiare, quando nulla resta da mangiare, prendendolo dal mondo spontaneo e selvatico.

Borragine in fiore,
potente antiossidante e antinfiammatorio

Ma oggi, che abbiamo tutto e di più, a cosa può servire tale conoscenza… pardon scienza?

Scienza appunto. Le voglio continuare il racconto… Quindi, questa sua Scienza fu molto contrastata dai contemporanei. E dopo un po’, sparì dalle pubblicazioni e dall’attenzione. Ma la storia a volta allontana semi che spesso germogliano lontano. E quindi nel 9 di luglio del 1943, sulle coste meridionali della Sicilia, sbarcarono soldati U.S.A con nel taschino un piccolo libricino intitolato “Manuale di sopravvivenza”, sottotitolato “Erbe Alimurgiche”, ad uso di coloro che si fossero persi, oppure lontani dai propri, per mangiare in sicurezza le piante lì illustrate. Ci tornava dalle Americhe, quello che con stoltezza avevamo abbandonato… Da allora, trapiantata sul suolo patrio, sopravvive nelle ricerche botaniche di alcune illustri facoltà.

Fiori di malva, dalle forti proprietà emollienti

Quindi Lei cucina solo erbe selvatiche… alimurgiche? La raccolta di sussistenza appartiene però ai nostri nonni, e i loro sono tempi ben lontani da quelli attuali delle grandi cucine e dei piatti gourmet. Borragine, tarassaco, malva, non sono più sulle nostre tavole. E poi ci sono i pericoli: alcune piante, fiori, bacche, radici, possono essere velenosi per gli esseri umani, alcune possono sembrare identiche a quelle buone, ma non lo sono affatto. Meglio, allora, cautelarsi nella caccia alla cicoria selvatica sotto casa?

Certo, non cucino solo le erbe selvatiche! Che comunque sono alla base di tutta la catena alimentare… il latte, la carne, iniziano da lì. Nella cucina popolare di ogni popolo, quasi mai ci si ferma alla semplice cottura delle erbe, quando non è occasione di riutilizzare i magri avanzi di scarti di carni, pesci, legumi, cereali, croste di formaggio. La fame, nei secoli, è lo spettro che ci ha accompagnato. Fino al ritorno completo del pendolo, ad arrivare a questa bulimia mediatica gastrotelevisiva, dove più che mangiare, si parla di mangiare, e dove ciò viene completamente decontestualizzato: dal sociale, dal conviviale, dal culturale. Roland Barthes diceva, riguardo l’atto del mangiare, che non è semplicemente l’indice di un insieme di motivazioni più o meno coscienti, ma un vero e proprio segno: cioè l’unità funzionale di una struttura di comunicazione. Con il presentare le piante alimurgiche come piatti-base per una giusta alimentazione, voglio fortemente comunicare quanto sia assolutamente indispensabile, al di là del contingente, conoscere quelle piante. Ne va del nostro futuro, quanto del nostro passato quando esse si sono presentate all’appello dei nostri bisogni.

Fiori di Tarassaco, dal forte potere disintossicante

Ma davvero abbiamo bisogno di questa cultura popolare per progredire nella conoscenza? Non vi è una schiera di ottimi scienziati, ricercatori, che possono fare di più e meglio? E poi non c’è più la sussistenza… Però, via, la questione resta curiosa, e riscoprire prodotti della terra bistrattati, che regalano profumi e sapori d’altri tempi, potrebbe essere un fatto vincente. E’ vero che a fine Ottocento il pasto era mediamente composto da un buon 70-80% di prodotti selvatici? Un altro mondo…

Vero. Però dare risposta esaustiva ad una domanda, se non si è arroganti, o peggio ancora presuntuosi, è difficile. La risposta è complessa, quando complessa è la domanda. Lasci ora che sia io a porle un quesito: ma è possibile che la cultura “alta”, quella scientifica intendo, non incontri e scambi il suo conoscere con un sapere profondo, quello dato dalla cultura “Popolare”? Quanto tempo ancora perderemo inseguendo superficiali convinzioni che “cultura popolare” è sinonimo di arretratezza, pregiudizio, ignoranza? Perché non arrendersi all’evidenza che l’una, la scienza, è sintesi dell’altra? Se, come pare, l’uso di sottrarre e addizionare pietre all’uscita ed al rientro dal recinto degli armenti, sia stato l’origine della nascita dell’aritmetica, ramo della matematica… allora ci siamo. Se, come pare, la Farmacia, fondamento dell’arte Medica, deve tutto all’empirismo popolare nell’osservazione degli effetti di certe piante, per la sua nascita… allora ci siamo. E ancora, se intorno ad un fuoco nella notte dei tempi, un circolo di Sapiens Sapiens, noi quindi, ci scambiavamo racconti e storie, facendo nascere quello che noi oggi chiamiamo Letteratura, Storia, Geografia, ecc… non è così?

Quali, dunque, delle umane scienze, saperi e conoscenze, non derivano dall’empirismo, dalla sperimentazione testarda e silenziosa e continua di tutte le passate generazioni umane? Domanda retorica, ma necessaria. Necessaria ad un ripensamento non superficiale fra ciò che eravamo e ciò che adesso siamo diventati. Da un pianeta in equilibrio con la natura, ad un pianeta messo in dubbio da una politica che abbandona il sapere, per appiattirsi nella bulimia di scienze altre, pervicaci ed invasive. Di cui nessuno, ripeto nessuno, conosce davvero il destino. La scienza è scienza perché non crede, perché sa di non sapere. Che quella data verità è da abbandonare al sopraggiungere della prossima.

In visita alle Cantine Rombolà
di Brattirò (Vv) e al Pastificio Astorino (Kr)

Lo scienziato non può essere arrogante, non può chiamare gli altri, ignoranti, perché sa di esserlo anche lui. L’unico uomo che ci abita, è confuso, titubante, insicuro. E quindi autenticamente umano. Dico questo, per indurre chi singolarmente possiede un sapere, a condividerlo con altri, affinché non si senta “minus” alla Scienza maiuscola, o ancora alla Tecnica che la sorregge. Allora, il sapere di cui parlo, è necessariamente detto e vissuto come storia, narrazione: unico modo per diffonderlo, renderlo digesto alle nostre menti. Affinché, al fine, si torni intorno ad un fuoco, noi umani, ad attendere il sole che ci sciolga dalle più grandi paure.

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