19 Apr Giuseppe Averta, mani “umane” per i nuovi robot
Originario di Serra San Bruno (Vv), dottorato in Robotica e Automazione nel Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa è il vincitore del prestigioso “Georges Giralt PhD Award” per la migliore tesi europea
di Roberto Messina
Giuseppe Averta, 28 anni, dottorato in Robotica e Automazione nel Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione dell’Università di Pisa di Ricerca, calabrese di Serra San Bruno (Vv), è il vincitore del prestigioso “Georges Giralt PhD Award”, il premio per la migliore tesi di dottorato in Robotica in Europa, conferito ogni anno all’European Robotics Forum da EuRobotics AISBL (l’Associazione di industrie e centri di ricerca Europei del settore), l’incontro più influente della comunità della robotica nel Vecchio continente, tenutosi come evento virtuale lo scorso mese di aprile.
Ha condotto la sua preziosa ricerca nei laboratori del Centro “Enrico Piaggio” a Pisa e all’IIT, l’Istituto Italiano di Tecnologia a Genova, due assolute eccellenze italiane e mondiali, che è stata supervisionata dai professori Matteo Bianchi (professore associato di Robotica all’Università di Pisa) e Antonio Bicchi (Senior Scientist delll’IIT di Genova diretto da Giorgio Metta, che ha preso il posto di Roberto Cingolani, attuale ministro della Transizione ecologica)
La tesi premiata, dal titolo “Human-Aware Robotics: Modeling Human Motor Skills for the Design. Planning and Control of a New Generation of Robotic Devices”, affronta un’approfondita analisi su come gli esseri umani muovono mani e arti superiori, allo scopo di poter progettare robot più “antropomorfi” e protesi che eseguono movimenti il più possibile connaturati o “naturali”.
“Le prestazioni dei moderni robot umanoidi, sono ancora estremamente lontane da quelle degli esseri umani – spiega Giuseppe Averta -. Siamo infatti in grado di compiere movimenti molto variabili e complessi, nonostante i nostri muscoli siano poco performanti e il nostro sistema nervoso abbastanza lento. Nel mio studio cerco di sviluppare metodologie per riportare queste capacità proprie del corpo umano sui robot. Questo ha richiesto un sostanziale cambio di paradigma rispetto agli approcci standard, e di affrontare problemi che attraversano i confini di diverse discipline, dalle neuroscienze e la psicofisica fino alla meccatronica, la teoria del controllo e la robotica. E’ importante prendere spunto dalla natura e da come ci muoviamo, anche per valutare come le patologie possono influenzare le nostre capacità motorie. Per esempio, dopo un ictus, vediamo che i movimenti della persona vengono modificati e diventano per così dire caratteristici e cronici delle nuove condizioni di salute. Con la mia ricerca, si cerca di valutare in maniera quantitativa il livello di severità di questa patologia, quanto è grave il limite motorio e il suo livello di gravità. E soprattutto, si studia come utilizzare modelli matematici per capire se una terapia funziona e\o come procede il recupero funzionale”.
Le applicazioni individuate nel lavoro di Averta, si concentrano essenzialmente su tre filoni: lo sviluppo di protesi robotiche mano-polso semplici e efficaci, con un numero cioè limitato di attuatori (i “muscoli” dei robot), ma allo stesso tempo in grado di compiere movimenti complessi con naturalezza e robustezza; lo sviluppo di algoritmi per il movimento di robot umanoidi, specialmente manipolatori robotica a uno o due bracci; la valutazione del danno motorio in pazienti colpiti da infarto o ictus. Tre campi parzialmente differenti, ma in cui è fondamentale un robusto lavoro teorico che descriva in linguaggio matematico le caratteristiche fondamentali del movimento umano.
“L’idea fondante è che il movimento è una variabile molto difficile da comprendere, perché è a complessità assai elevata. L’ingegneria, perciò, interviene cercando di descrivere in maniera semplice un fattore complesso, provando nel nostro caso a definire, interpretare e riprodurre i modelli primitivi, i modelli base del movimento, che costituiscono gli ingredienti del sistema nervoso centrale che li utilizza e li amalgama per generare movimenti articolati”.
Facile a dirsi così, dott. Averta. Un po’ difficile a comprendersi… Ci spieghi meglio.
“Utilizziamo modelli matematici a dimensionalità ridotta, che sono in grado di descrivere con accuratezza l’infinita dimensionalità dei movimenti reali. Se posso dire così, restiamo vicini alla natura delle cose. Cerchiamo di risolvere ingegneristicamente, quanto la natura ha già risolto. Una cosa fondamentale. Alla Scuola Sant’Anna di Pisa, per dirne una, si fa ricerca sulle piante in interazione con l’ambiente e si riportano i dati in ambito scientifico ingegneristico. Le nuove frontiere della robotica soft, per dirne un’altra, si ispirano ai polpi e alla loro struttura duttile senza scheletro, ai loro movimenti che hanno generato tanta meccanica, oltre che tanta fantascienza…”.
La robotica e l’eterna questione: utile, utilissima in tanti campi, ma poi finisce per rubare il lavoro all’uomo…
“Non è corretto pensare alla robotica come sostitutiva dell’umano. Piuttosto, come ad una scienza e una tecnologia messe al servizio dell’uomo. Le mie applicazioni sono su una tecnologia per le patologie, dunque per una robotica industriale che va ad aiutare, non a sostituire. Oltre che di Robotica, è bene parlare di Cobotica, di tecnologia collaborativa, per elevare la qualità del lavoro umano, non per cambiarne la titolarità, ma per sostituire l’uomo nei ruoli pesanti, scomodi, rischiosi, alienanti. I miei studi, partendo dagli esempi della natura, cercano modellizzazioni matematiche che fungano da guida alla progettazione dell’artificiale. I risultati che abbiamo ottenuto e stiamo ottenendo, dimostrano in effetti come l’osservazione del sistema naturale possa rappresentare una delle chiavi per gli sviluppi della robotica del futuro”.
Pare che gli scienziati l’abbiano premiata anche per la “semplicità”, la linearità del suo studio, per l’approccio senza enfasi e grandi proclami verso la rivoluzione annunciata della robotica umanoide… Per l’Ateneo pisano, va ribadito, si tratta comunque del terzo riconoscimento ad uno dei suoi dottori di ricerca, dopo quello a Cosimo della Santina lo scorso anno, e a Manuel Catalano nel 2014.
“Non sta a me dirlo, ma in effetti io sto coi piedi per terra, lontano da progetti mirabolanti con poche possibilità di tradursi in concretezza. Cerco di semplificare design e controllo di automi prendendo ispirazione dal corpo umano, senza copiarlo ma semplificandolo. Il terzo riconoscimento all’Ateneo in così breve tempo sta a significare qualcosa.”.
Asimov nel cuore? La robotica come effettiva possibilità, come “fantascienza” applicata? So che ama citare questo passaggio dello scrittore russo naturalizzato americano: “Le braccia di acciaio cromato del robot – capaci di piegare una sbarra dello spessore di sei centimetri – stringevano la bambina delicatamente, amorosamente e i suoi occhi splendevano di un rosso intenso. “Bene” – disse in ultimo Miss Weston. “Immagino possa rimanere con noi finché non arrugginisce”.
“Asimov resta un mito e un punto di riferimento per tutti noi. Questo dialogo è emozionate ed esemplificativo”.
La Sua ambizione ora. Il progetto che vorrebbe vedere diventare realtà.
“Creare sistemi robotici capaci di far tornare a camminare come normali persone colpite da ictus o da infarto, paralizzate da malattie o incidenti”.
Andiamo indietro, agli albori. La sua Serra San Bruno. La scuola e il Liceo “N. Machiavelli”.
“Ho fatto l’intero ciclo scolastico a Serra e ne sono fiero. In particolare degli anni al liceo Scientifico, che mi hanno significativamente avvicinato e fatto amare le Scienze ad ampio spettro, la Tecnologia, l’Informatica e pure la Robotica, di cui si parlava”.
Il suo “destino” di robotico si era manifestato e visto, comunque, ben prima…
“Possiamo dire così, se così vogliamo dire. Da bambino mi veniva naturale montare e rimontare le cose: giocattoli, telecomandi, radio, sveglie, e pure computer. Forse la prima cosa seria smontata è stata un telecomando tv. La più complessa, un vecchio computer Toshiba, un portatile, si fa per dire…, all’epoca ingombrante e pesante”.
Li smontava e basta?
“No. Li smontavo e li rimontavo funzionanti come prima”.
Sappiamo che la differenza la faceva un cacciavite… Una sorta di estensione delle Sue mani, sempre con Lei quale fedele compagno di giochi avventurosi all’interno del mondo misterioso dei giochi per bimbi e dei devices per adulti. La Sua chiave di volta nell’attività da enfant prodige di “sezionatore”. Il cacciavite, come strumento di viaggio, di scoperta, di esplorazione, di conoscenza, di abilità, di conquista.
“E’ vero. Propri così. Una bella metafora…”.
Serra San Bruno, un delizioso paese montano sull’altopiano, famoso per le sue chiese barocche coi portali in granito sublimemente lavorati da grandi scalpellini locali, per la monumentale Certosa medievale, per i boschi, le acque sorgive e i funghi…
“Il luogo del cuore, il luogo dell’anima, e per me come detto anche il ruolo della formazione, e mi auguro un giorno non lontano, anche quello del ritorno. Per le risorse ambientali e la gastronomia, un altro paradiso”.
Un “ritorno”, immagino non facile, comunque lo ha già fatto, una volta deciso il rientro in Italia dal MIT di Boston dove, spiace dirlo, le prospettive di carriera potevano essere ben altre…
“Boston e il MIT sono il sogno di chiunque si interessi alla mia disciplina e voglia studiarla e perfezionarsi, si sa. Che le prospettive di carriera possano essere qui più facile e spedite, si sa pure. Ma che in Italia non si possa ugualmente aspirare ad una carriera di ricerca o accademica, non è vero, pure se vero è che le occasioni sono meno e più difficili. Bisogna rischiare. E l’evoluzione della scienza e della robotica in particolare lasciano campo libero all’innovazione, all’inventiva, alla scoperta e al cambiamento… E’ poi, bisogna andare controcorrente. Credo che se si interrogassero i tanti ricercatori calabresi che fanno parlare di loro nel mondo, molti la penserebbero come me, solo ci fosse occasione concreta per farli decidere al ritorno alle radici”.
Rientro in Italia e pure rientro in Calabria…Un azzardo? O il sogno di una nuova Silicon Valley?
“In Calabria ci sono Atenei in grado di raccogliere una sfida del genere. L’esempio della Silicon Valley non è peregrino. Tutto può essere, e perché no! potremmo vedere tutto un tratto fiorire qualcosa di simile, o vicino, anche da noi. Ci potrebbero concorrere una buona volontà accompagnata da intelligenza, operosità, competenza e dalla visione virtuosa di una valida governance regionale e nazionale. Oltre, naturalmente, a finanziamenti specifici e mirati”.
Arrivato a Pisa ad appena 18 anni, e senza barba come adesso… cosa ha trovato e cosa Le è mancato? E cosa trova e cosa le manca?
“A Pisa mi son trovato bene subito e ancora di più dopo. Città ideale per studiare. A dimensione d’uomo, accogliente, comoda. Con un Ateneo superlativo. E con una comunità calapro-pisana folta e qualificata, a cominciare proprio dal mondo universitario, che ti fa sentire a casa tua. Mi mancano, certo, la Calabria e Serra San Bruno per gli affetti e le amicizie che ho lì, per la maggiore tranquillità, per l’abbraccio di parenti e luoghi. A Pisa ho trovato e trovo un ambiente piccolo ma internazionale, tante possibilità d’incontro con gente di ogni dove, e una dimensione cittadina. Come detto, anche tanti calabresi venuti a studiare come me, e che negli anni si sono affermati in vari campi diventando pisani a tuti gli effetti, un modello per tutti”.
E a tavola? La domenica a pranzo a Pisa?
“Beh… la ‘nduja, i salumi, i funghi, il pane. E a ‘pitta china’ con alici, tonno e olive. Pietanze ineguagliabili. E’ difficile ce li facciamo mancare… In qualche modo arrivano. L’acqua, quella non si trova… Comunque a Pisa ci sono adesso ottimi ristoranti che fanno cucina calabra”.
Tipo “Sugo e Camicia”, che conosciamo e che abbiamo raccontato qui su Calabria Mundi?
“Perfetto. Ottima cucina, e pietanze calabresi a gogò”.
Calabrese anche la moglie, Manuela Spadea, di Cortale (Cz), pure lei ricercatrice, conosciuta a Pisa e ora medico specializzando in Oncologia Pediatrica all’Università di Torino, laurea in Medicina sempre nella città della torre pendente, Giuseppe Averta è figlio di Luigi e di Carmela, entrambi commercianti, con un negozio di calzature e abbigliamento per bimbi a Serra, e ha due sorelle: Fiorella odontoiatra, e Carolina ricercatrice di Scienze della nutrizione all’Università di Catanzaro.
Al liceo Scientifico di Serra San Bruno, si era diplomato con 100, il massimo dei voti. Idem (manco a dirlo) all’Università di Pisa: 110 e lode nel 2015, con una tesi sull’Analisi dei movimenti umani durante la quotidianità. Famiglia molto legata al territorio serrese e alla sua grande Certosa, anche Giuseppe ama il meraviglioso e mistico Monastero cenobitico fondato da San Bruno di Colonia nel lontano 1095.
“La Certosa per noi tutti, e per tantissimi altri, è un punto di riferimento imprescindibile e sostanziale. I miei ci sono particolarmente affezionati per la loro formazione cattolica e anche per far parte della Confraternita della Madonna Addolorata. Come me, devoti di san Bruno. Alla Certosa, si lega buona parte della mia infanzia e gioventù, con le visite al suo interno tra i monaci eremiti, e le passeggiate, le scampagnate, i giochi nei boschi intorno. Tempi felici.”
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