Antonio Arcieri, matrice calabra e tante identità, per un eccezionale stile di cucina

Diplomato all’Istituto “De Filippi” di Varese, lo chef originario di Lamezia Terme (Cz) parte per uno stage in Spagna presso il bistellato Paco Perez, poi è a “El Bulli” di Ferran Adrià, acquisita fiducia di Perez, e per suo conto dirige ora il Ristorante “Arco” e il bistrò “Treinta Y Tres” a Danzica, in Polonia. “Ogni volta che preparo un piatto calabrese è sempre una festa. Ho cucinato cucina calabrese per gente del nord Italia, per spagnoli e polacchi. Con i piatti calabresi sorprendo tutti, e riesco a ricreare attimi di felicità, e tutti mi chiedono di voler ripetere quest’esperienza. E ci credo bene!”.

di Raffaele D’Angelo

Antonio Arcieri all’opera in cucina

Nato a Lamezia Terme (Cz), esattamente al vecchio ospedale di Nicastro, scuola alberghiera a Varese, Antonio Arcieri appena diplomato è già partito in direzione Spagna, e si è formato lì con lo chef Paco Perez, impegnato per ben dieci anni nel suo ristorante principale, il “Miramar di Llanca”, a Girona. Poi il privilegio di fare uno stage al “El Bulli” di Ferran Adrià, a Roses, sempre in Catalogna. La scelta di fare il cuoco è comunque per lui immediata, più o meno all’età di dieci\undici anni: “ero indeciso su cosa fare in futuro – ci racconta – non avevo chiaro che indirizzo prendere per le scuole superiori e una sera mia madre mi disse: ‘perché non provi a fare lo chef? Ecco quella fu la frase e il momento in cui ho capito, senza nessuna conoscenza di cucina, che sarei diventato chef”.

La cosa che oggi, dopo aver scelto questa professione, lo riempie di orgoglio e gli dà emozioni e soddisfazioni, è l’ammirazione della gente, tante persone che hanno come punto di riferimento, imparano le sue ricette e si ispirano a quello che fa in cucina. “A volte ricevo messaggi sui social network da parte di giovani e meno giovani che mi chiedono consigli, mi fanno i complimenti per il mio lavoro o semplicemente mi dicono che sono una fonte d’ispirazione. Questa è la mia più grande soddisfazione”.

La sala del ristorante “Arco” a Danzica, Polonia

Com’è organizzata la cucina di Arcieri? A cosa tiene di più? Oggi gestisce due ristoranti: uno fine dining e uno che possiamo definire casual. Entrambi dalla stessa cucina, con due squadre che però lavorano come fosse una sola. “Siamo super organizzati. Ognuno ha le sue mansioni ma tutti, o quasi tutti, possono appoggiare o sostituire un compagno. In cucina sono molto severo e forse ‘duro’ con i miei ragazzi. Sono convinto che questo sia l’unico metodo per lavorare a grandi livelli. Serietà, concentrazione e sacrificio. Ma allo stesso tempo sono un amico, un padre, un fratello maggiore, uno psicologo per la mia squadra. Tutti sanno che possono contare sempre su di me. Capisco chi ha famiglia con figli, chi ha bisogno di fare un giorno libero extra, chi ha qualche problema: e sono sempre il primo a tendere una mano per la felicità della mia squadra. Ogni sabato sera, dopo il servizio, abbiamo la tradizione di farci due spaghetti aglio e olio tutti insieme, qualche birra. Serietà, concentrazione e sacrificio, diventano amicizia, relax e divertimento. La cosa che tengo di più, è che ci sia sempre un buon ambiente. Siamo in diciassette in cucina. Niente scaramanzia. Non è facile essere tutti sempre felici e motivati, ma cercare di essere una squadra unita, è la cosa cui tengo di più”.

Cucina classica, nouvelle cuisine, internazionale, vegan, vegetariana o etnica? Quale l’ha ispirato di più? “Oggi qualsiasi tipo di cucina può essere fonte di ispirazione. Ma la classica è sempre alla base di tutto per poter innovare. Senza la cucina classica non potrebbe esisterne una di avanguardia”.

Antonio Arcieri con il suo maestro Paco Perez

Si ritiene conservatore o progressista? Cosa pensa della nuova tecnologia in cucina: cucina molecolare, cucina all’azoto… “Totalmente progressista. Il progresso è il pane quotidiano. Senza progresso oggi per tornare in Calabria, invece dell’aereo, dovrei usare un carro con i cavalli. È importante conservare le radici e le tradizioni per tramandarle e migliorarle. Ho lavorato con Ferran Adrià, il fondatore della cucina moderna. Sono un ‘bulliniano’ 100%. Anche se come diceva il maestro: ‘esistono solo due tipi di cucina: quella fatta bene e quella fatta male’. Quindi se fatta bene, ben venga qualsiasi tipo di cucina”.

Lo chef: per Lei più scienziato, o più artista? O forse, più artigiano? “Dipende da ognuno. Io personalmente mi considero più artista. Seguo la scienza per migliorare, sperimentare e capire cosa succede quando cucino. Ma imparo molto anche dagli artigiani”.

Il significato ultimo del cucinare… Secondo Arcieri esprime essenzialmente: “un momento di felicità. Basti pensare a quando si cucina per la famiglia la domenica, quando si cucina per amici, per la donna che si ama. Cucinare è un modo saporito per dire ti voglio bene, regalando qualcosa di proprio, di intimo, alle persone che ami”.

La cucina calabrese fuori Calabria. È difficile insegnare a mangiare calabrese? “No! Ogni volta che preparo un piatto calabrese è sempre una festa. Ho cucinato cucina calabrese per gente del nord Italia, per spagnoli e per polacchi. Con i piatti calabresi sorprendo tutti, e riesco a ricreare attimi di felicità, e tutti mi chiedono di voler ripetere quest’esperienza. E ci credo bene!”.

Arcieri con la fidanzata Agnieszka, anche lei brava chef

Quando pensa alla Calabria e alla sua infanzia, gli viene in mente la pasta e sarde, la pasta e broccoli e “i cordonblu” (così li chiamava) di nonna Teresa, i taralli che i nonni mandavano a Varese per Pasqua che quando diventavano duri venivano inzuppati nel latte la mattina per colazione: “Quel sapore di anice nel latte lo sento come un tatuaggio nelle papille gustative. Poi nonna Gina faceva delle crocchette di patate che erano la fine del mondo. Non riesco a ricordarla in altro modo se non con un grembiule addosso. Però i maccheroni al sugo di mamma sono il piatto della mia vita. Non perfetti tecnicamente, ma perfetti per tutto il resto”.

Quando è da solo Arcieri che piatto calabrese ama prepararsi? “Pasta e sarde. Aglio, olio, sarde, prezzemolo e uno spaghettone come si deve”. E qualialtri calabresi ama? “Baccalà frijuto con le olive, pipi e patati, sasizza e rapi affucati, mulingiani chjini, maruzzi, crispelli, pasta e ciciari e non vado avanti perché non finirei più”.

Come mai a Danzica? Come si trova in Polonia? Che cucina fa? “Danzica è stata la città dove ho voluto ricominciare. Volevo imparare una nuova cultura, fare un’esperienza totalmente diversa da quella fatta fino ad allora. Uscire un po’ dalla zona di comfort, come si dice. Mi trovo bene anche se non parlo la lingua. Con l’inglese sopravvivo abbastanza bene. Non nascondo che nei primi mesi mi ero quasi pentito di aver lasciato la Spagna per la Polonia. Ma quando ho iniziato ad intendere la cultura e la mentalità, mi ci sono abituato. Ormai la considero la mia terza casa. Gestisco due ristoranti. Uno casual, ‘Treinta i Tres’, dove proponiamo una cucina spagnola: tapas, arroces, etc. Uno fine dining, “Arco”, dove serviamo solo menu degustazione. Uno moderno, di ventidue portate, uno dei nostri classici e un menu vegetariano. Tutto secondo i dettami della cucina mediterranea, molto spagnoleggiante, ma con qualche accenno alla cucina italiana”.

Nei piatti di Alcieri, oltre
la sostanza conta molto
anche la forma

Un aggettivo per definire Danzica, la Polonia, l’Italia. “Danzica rivoluzionaria, Polonia sorprendente, Italia bella”. Un pensiero e un ricordo per Lamezia Terme: “A Lamezia ci sono nato e quando avevo appena nove mesi la mia famiglia si è trasferita a Germignaga in provincia di Varese. Erano gli anni ‘80 e la mia famiglia, come tante altre è stata costretta ad emigrare, cercando una vita migliore al nord. In Calabria ci tornavamo ogni anno in agosto. Lamezia, per me è la città dove ho passato le vacanze più belle di sempre. Era sempre festa. Ventuno giorni di mare, tavolate piene di cibo e bellissima gente. Amo tornarci ogni anno”.

Da chi ha ereditato questa Sua passione? “A livello professionale da nessuno, ma in famiglia siamo tutti ottimi cuochi. Quindi ho sempre avuto la fortuna di mangiare cibo sano, buono e gustoso. Sicuramente, visto che tutti erano in grado di cucinare, inconsciamente mi ci si sono appassionato anch’io”. Chi cucina a casa sua? “Oggi vivo con Agnieszka, la mia fidanzata e futura sposa, e anche lei fa la cuoca e cucina benissimo. Quindi a turni cuciniamo entrambi. E quando va al ristorante come lo sceglie? “Il più delle volte ci vado per passare un bel momento con amici o famiglia. Forse il cibo passa in secondo piano. Preferisco sempre un posto riservato, dove il personale mi fa stare bene senza essere troppo invadente. Non sono più propenso ad assaggiare piatti nuovi, preferisco il comfort dei miei ristoranti di sempre. Qui in Polonia vado al ‘Chianti’, un piccolo ristorantino italiano del mio caro amico Maurycy, polacco ma di radici toscane. Qui mi sento a casa”.

A chi deve, tra tutti, di più? “Tra tutti, di più devo a me stesso. Ho sacrificato tutto per seguire i miei sogni. Potrebbe sembrare una frase fatta. Ma dopo ventidue anni lavorando in cucina, inizio a essere convinto che devo molto a quel ragazzo che ha sognato di essere il numero una tutta la vita, e sono sicuro che presto ci riuscirà (risata)”.

Riguardo l’attività di ristorazione in Calabria e la sua produzione gastronomica, Arcieri dice di ammirare tutti quelli che fanno ristorazione in regione, quelli che fanno conoscere il suo patrimonio e la sua tavola. Pensa comunque che bisogna lavorare ancora tanto per trasformare una clientela un po’ tradizionalista e conservatrice, che negli ultimi anni sta però dando spazio a tanti giovani chef, il che vuol dire che qualcosa si sta muovendo.

I suoi più grandi uomini di cucina di riferimento? “Beh, ovviamente il mio storico Maestro Paco Perez è e sempre sarà il mio più grande riferimento in cucina. E poi Ferran Adrià, Andoni Luis Aduriz, Michel Bras”.

Il tratto peculiare del suo carattere? “Non mollo mai, faccio di tutto per raggiungere sempre, o quasi, i miei sogni e obbiettivi”. Il principale difetto: la testardaggine. Il principale pregio: la costanza. Rimpianti? Nessuno: “ho avuto la fortuna di fare sempre ciò che ho voluto. Sono sempre stato supportato e mai ostacolato dalla mia famiglia in tutte le mie scelte”. Il suo motto? “Onori e oneri. Una frase che mi disse il mio professore di storia delle superiori. Ero un alunno abbastanza popolare a scuola e al quarto anno mi candidai per fare il rappresentante d’Istituto. Fui eletto all’unanimità, ebbi la maggioranza assoluta, superando anche quelli del quinto anno. Il giorno dopo quel successo il Professor Martinoli mi disse quel motto in un primo momento non diedi il giusto peso, ma adesso a distanza di tanto tempo ho capito pienamente il suo significato. Quando si fanno delle scelte poi bisogna onorarla mantenendo fede a quanto promesso, ma soprattutto mantenere sempre i piedi ben saldi a terra”.

All rights reserved (Riproduzione riservata) – Foto, gentile concessione Antonio Arcieri