UN MEDICO PARLA DA STORICO, MAI DA INDOVINO

Intervista al catanzarese Luigi Boccuto, brillante genetista negli Usa, “Research Scientist” al Greenwood Genetic Center con incarichi da professore alle università di Clemson e South Carolina. 

di Roberto Messina

Il coronavirus, sarà un caso (ma l’eccellenza calabrese in campo medico, non lo è affatto) vede corregionali in prima linea nello studio e nel “combattimento” per risolvere e battere l’emergenza. Primari, infermieri, direttori sanitari, ricercatori, manager di origine bruzia, o formatisi nelle università della regione, non si contano. Sono in questi giorni giustamente agli onori delle cronache i nomi di Luigi Camporota (pneuomologo nella equipe del St. Thomas Hospital di Londra, che ha curato e guarito il premier britannico Johnson); di Raffaele Bruno primario di Malattie infettive all’Ospedale di Pavia e professore universitario; di Salvatore Spagnolo, cardiochirurgo già responsabile del Policlinico San Martino di Genova e del Policlinico di Monza, con i suoi studi sull’eparina. Per non dire dei commissari Domenico Arcuri e Vittorio Colao. 

Ma non basta. Ecco infatti un’ennesima recente scoperta, stavolta tra i ricercatori italiani d’oltreoceano, e che sappiamo non sarà l’unica, ma la prima di una lunga serie che ci apprestiamo a raccontare: quella del professor Luigi Boccuto, catanzarese, formatosi a Roma, laurea in Medicina e Chirurgia, e successivamente specializzazione in Genetica Medica, da qualche anno negli Stati Uniti al complesso lavoro di “Research Scientist” presso il Greenwood Genetic Center, e parallelamente  Professore presso le università di Clemson e del South Carolina. 

Boccuto si occupa principalmente della genetica dell’autismo e delle sindromi correlate, in particolare la sindrome di Phelan-McDermid e la sindrome dell’X Fragile; e poi di condizioni predisponenti al cancro e di disturbi metabolici, particolarmente riguardanti il fegato. È attivamente coinvolto nelle attività di associazioni di famiglie con sindrome di Phelan-McDermid, come l’AISPHEM (Associazione Italiana Sindrome di PHElan-McDermid), per la quale ricopre la carica di membro del comitato scientifico.

Lo abbiamo intervistato, in esclusiva per Calabria Mundi, per sapere di più anche sul coronavirus dalla prospettiva americana e da quella dei laboratori scientifici più avanzati del mondo. 

Prof. Boccuto, iniziamo “ab ovo”. Quando è cominciata la Sua avventura di medico, genetista, ricercatore?

“Sono sempre stato affascinato dalla ricerca e mi sono appassionato alla genetica durante i miei anni al liceo. Una volta finiti gli studi ero indeciso se iscrivermi a Biologia o Medicina, ma sapevo che comunque il mio percorso post-laurea mi avrebbe portato alla genetica. A quel punto, ho avuto la fortuna di ricevere un prezioso consiglio da colui che sarebbe diventato il mio mentore, il professor Giovanni Neri, Direttore dell’Istituto di Genetica Medica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. Mi disse che la formazione da medico mi avrebbe fornito una visione più comprensiva delle condizioni genetiche, perché avrebbe aggiunto la componente clinica. Mi convinse, e intrapresi i miei studi in quella università, e nonostante le molte affascinanti branche della medicina, sono rimasto fedele al mio primo amore e sono diventato, appunto, un genetista medico”.

E’ stata, come si dice, una vocazione?

“Per molti versi direi di sì, anche se ovviamente c’è stata una componente di calcolo e considerazione a breve e lungo termine, di vantaggi e svantaggi della mia scelta: sicuramente alla base della stessa si colloca una profonda passione per la scoperta, per l’innovazione e per contribuire ad aiutare gli altri”.

La Sua più grande soddisfazione in questa attività?

“Può sembrare strano, ma nell’era delle tecnologie di sequenziamento di nuova e terza generazione, che consentono di ottenere in poche ore risultati che solo pochi anni fa erano impensabili anche impiegando lustri, la mia soddisfazione più grande si materializza nel comunicare con le famiglie, non nel raccogliere personalmente i frutti della scienza sempre più avanzata, ma nel portare questi frutti sulla tavola di chi ne ha maggiormente bisogno. Nel fare scienza attraverso la comunicazione, la consulenza, l’informazione”.

Veniamo al coronavirus… Quali tempi dobbiamo aspettarci per un vaccino effettivamente efficace?

“Per quanto l’emergenza della pandemia da Covid-19 sollecita la massima urgenza, bisogna rispettare alcuni punti fissi nel processo di sviluppo e validazione di un vaccino, per essere sicuri della sua efficacia ed evitare importanti effetti collaterali.

Sono dati di questi giorni che ci sono 5 vaccini al momento nella fase clinica dei trial e altri 71 nella fase pre-clinica. Un’appropriata verifica su modelli cellulari prima e su organismi animali successivamente (fase pre-clinica) è garanzia di validità scientifica, prima di testare il vaccino su esseri umani, così come dei trial clinici ben disegnati e che possano reclutare un numero importante di volontari, sono alla base di una precisa valutazione dei benefici del vaccine.

Purtroppo tutto questo porta a dei tempi che difficilmente possono essere inferiori ai 12-15 mesi, anche con i percorsi abbreviati che ragionevolmente sono stati intrapresi per arginare la diffusione del Covid-19. Nel frattempo, non bisogna comunque abbassare la guardia, perché come suggeriscono numerosi esperti, non è inverosimile aspettarsi per il prossimo inverno un’altra ondata di infezioni da coronavirus, probabilmente un ceppo leggermente diverso”.

Quali possono essere i farmaci utili al contenimento del coronavirus?

“Una delle lezioni più preziose che ho imparato nei miei anni da studente di medicina è che un medico dovrebbe parlare da storico e mai da indovino. Purtroppo siamo ancora in una fase in cui non conosciamo a fondo il virus SARS-CoV-2, responsabile per la pandemia da Covid-19, e nonostante gli ingenti sforzi profusi da numerosi centri di ricerca in tutto il mondo, le prove a favore di un trattamento piuttosto che un altro sono limitate dal numero relativamente ridotto di pazienti testati e ovviamente dalla mancanza di studi di replicazione, per cui ipoteticamente un protocollo che può sembrare promettente in Giappone, potrebbe rivelarsi inefficace in Spagna. Pur non dimenticando l’elevatissimo numero di pazienti e di decessi causati dal SARS-CoV-2, è necessario continuare a testare farmaci e protocolli terapeutici, perché con il miglioramento delle nostre conoscenze del virus aumenta la consapevolezza degli effetti extra-respiratori, che pertanto richiedono ulteriori aggiustamenti della terapia”.

Le principali differenze tra la ricerca negli USA e in Italia?

“A parte la risposta banale legata alla differenza di fondi, alla natura privata di molti Enti di ricerca e alla maggiore componente di finanziamento privata, direi che l’approccio americano promuove più autonomia nell’organizzare progetti di ricerca e offre maggiori opportunità di mettersi in gioco e proporre nuove idee. D’altra parte, questo comporta anche una maggiore competizione e molto spesso progetti e intere posizioni dipendono dalla possibilità di ottenere finanziamenti, per cui spesso i vari ricercatori sono in una condizione di ‘tutto o niente’. L’ambiente italiano della ricerca, ha comunque il vantaggio di favorire il lavoro di collaborazione: mentre spesso e volentieri, negli Stati Uniti un ricercatore lavora a uno o più progetti in maniera isolata, in Italia il lavoro di gruppo è all’ordine del giorno e aiuta le giovani leve a crescere e imparare sul campo”.

E tra la vita negli USA e in Italia?

“Una premessa: gli Stati Uniti sono più un continente che una nazione, sia per la vastità del territorio che per la diversità socio-economiche tra Stati e anche tra varie Contee. Detto questo, se dovessi paragonare lo stile di vita della zona in cui vivo – Greenwood, Sud Carolina – e quello dell’Italia, direi che la cosa che colpisce maggiormente della vita americana è il senso civico e l’educazione, il senso di appartenenza ad una comunità. Mentre come aspetto positivo per la vita italiana, segnalerei senz’altro la capacità di godere delle piccole cose, tipo un caffè con gli amici o una cena in famiglia. In Italia, saremo probabilmente più indisciplinati, ma creiamo anche un ambiente di vita più a misura d’uomo. Altri aspetti diversi, sono legati alle distanze: molto maggiori negli States, che richiedono quindi spostamenti importanti anche su base giornaliera e inevitabilmente influenzano la qualità della vita”.

Che atmosfera, negli Usa, durante questa pandemia da Covid-19?

“Sicuramente la pandemia ha colto tutte le nazioni ampiamente impreparate, purtroppo la lezione delle contromisure attuate dai primi Paesi colpiti, come Cina, Giappone e Corea del Sud, non sempre sono state apprese ed applicate in maniera tempestiva nei vari paesi occidentali. Da questo punto di vista, la situazione negli Usa risulta abbastanza complessa, considerando che una prima ondata di contagi si è verificata nel mese di gennaio negli Stati che si affacciano sull’Oceano Pacifico (Oregon, Washington e California) senza però assumere i connotati di elevata contagiosità e mortalità presentati dalla diffusione registrata da marzo in poi. Pertanto, il governo statunitense ha dapprima assunto una posizione abbastanza attendista, sperando magari che i numeri del contagio non raggiungessero i picchi preoccupanti che nel frattempo venivano registrati in Italia. Purtroppo, le dinamiche di diffusione del virus SARS-CoV-2 si sono dimostrate fin troppo simili a quelle italiane, se non addirittura peggiori per la velocità di diffusione facilitata dai grossi agglomerati urbani che caratterizzano zone dell’America, come intorno a New York. Naturalmente, il governo sta mettendo a disposizione ingenti risorse, anche a livello di ricerca, per gestire al meglio la situazione, ma la situazione del Covid-19 in America costituisce un esempio paradigmatico di come, in situazioni di emergenza, il tempismo delle decisioni possa essere determinante”.

Cosa consiglia ai giovani studenti e ricercatori italiani?

“Di ‘innamorarsi’ della propria professione: la vita del ricercatore è inevitabilmente segnata da sacrifici, in termini di tempo, sforzi, stress da scadenze, stipendi poco renumerativi, incertezze di risultati e a volte di stabilità lavorativa. Non rappresenta certo una scelta professionale orientata ad accumulare ingenti guadagni, ma può portare ad arricchirsi sotto molti altri punti di vista. La ricerca offre la possibilità di contribuire a migliorare la vita degli altri sotto l’aspetto medico o tecnologico, ad essere parte di un processo di innovazione e progresso che spinge sempre più avanti le conoscenze umane. Ma per prendere parte a tale processo, bisogna veramente dedicarsi interamente alla causa, indipendentemente dal campo in cui si opera: la ricerca non è un tipo di professione in cui si stacca la spina una volta lasciato il posto di lavoro”.

Cosa porta della Calabria e dell’Italia dentro di sé?

“Posso dire con orgoglio di essere un figlio della mia terra: l’impronta di disciplina e dedizione che ho ricevuto in famiglia e a scuola durante la mia infanzia e la mia adolescenza, mi accompagna sempre e mi ha puntualmente aiutato nel corso dei miei studi e della mia formazione professionale. Credo che guardando all’Italia e alla Calabria da lontano, emergano inevitabilmente difetti, ma si possono al tempo stesso apprezzare anche tanti pregi, soprattutto nel nostro approccio ai problemi, caratterizzato da impegno e attenzione, ma anche da inventiva e creatività”.

Cosa porterebbe degli USA in Italia?

“Oltre ai dollari? A parte gli scherzi, porterei un carico di orgoglio nazionalistico cha in Italia sembra essersi perso dietro ai problemi e alle polemiche. Porterei la volontà di fare qualcosa di concreto per la propria comunità. Di ‘dare indietro’ in una traduzione letterale del loro ‘give back’ che nasce dall’idea che ognuno è chiamato a contribuire a rendere migliore il posto dove vive, non solo la propria casa, ma il proprio quartiere, la propria città, la propria Contea…

Infine, porterei una buona dose del sano ottimismo che ha caratterizzato gli Americani fin dai tempi dei pionieri, perché credo che in questo periodo ne abbiamo tutti disperatamente bisogno”.

Esiste, secondo Lei, un’identità, una peculiarità calabrese?

“Sicuramente, al di là dei luoghi comuni, il calabrese ha la ‘scorza’ dura, è preparato al lavoro e al sacrificio da una ferrea educazione. Al di fuori della Calabria il calabrese è apprezzato per la sua schiettezza e la sua profonda dedizione, ma anche per la capacità di adattarsi e fornire spesso spunti differenti nell’approccio ad un problema, quello che gli anglo-sassoni definirebbero ‘thinking out of the box’.

Le cito Alvaro: “Calabria in perenne fuga da sé stessa?”, eternamente incapace di guardare alle proprie possibilità e alle proprie vocazioni.

“Purtroppo la Calabria ha storicamente sofferto anche più di altre regioni meridionali di una sorta di complesso di inferiorità. Per anni ha guardato fin troppo ai propri limiti e troppo poco alle proprie risorse, forse perché spesso le risorse calabresi apparivano fuori dal tempo, non in linea con i bisogni di una società che andava verso l’industrializzazione prima e la digitalizzazione poi. Eppure, proprio nelle sue radici la Calabria avrebbe tutto il necessario per raggiungere l’eccellenza: è punto di incontro di cultura, storia, natura, tradizione. Porta in sé l’anima del Mediterraneo e alcune delle sue ricchezze naturali e archeologiche più uniche e preziose. Eppure questo non è abbastanza per i calabresi, per farne motivo di orgoglio e sprone per puntare al futuro. La Calabria ha paura di guardarsi allo specchio e scoprirsi bella”.

E Lei, in cosa è calabrese? E in cosa no? 

“Mi considero calabrese nella perseveranza (o cocciutaggine, in base ai punti di vista) che mi spinge in ogni attività che intraprendo, mentre forse sono leggermente meno calabrese nel mio senso di organizzazione particolarmente puntiglioso”.

Catanzaro. La sua infanzia, adolescenza e giovinezza… Ricordi. Rimpianti. Sappiamo che è stato invitato più volte dall’Università Magna Graecia per lezioni  nell’ambito del Dottorato di ricerca in Scienze della Vita, e in particolare del Suo ottimo rapporto e della grandi stima per il Prof. Ludovico Abenavoli.

“Catanzaro è famiglia, casa, ambiente probabilmente poco stimolante per un adolescente, ma che ha comunque tanto da insegnare. Si cresce in fretta a Catanzaro, e come in tanti altri posti, ci si può perdere o intravedere la propria strada. Per chi sa trovare equilibrio e ha un solido retroterra tra famiglia e amici, come è capitato a me, si tratta di una fucina che prepara alla vita adulta, spingendoti a metterti in discussione attraverso il paragone con altre piazze più rinomate. Crescere a Catanzaro può essere così il carburante per il fuoco di una sana ambizione, o può essere il vento (per restare ad una delle caratteristiche della città) che lo spegne. Alla fine, dipende da te capire cosa vuoi fare della tua vita. A Catanzaro sei forzato a scoprirlo prima che in altri posti.

Catanzaro è anche luogo dove l’ingegno e il cuore di tante persone lavorano per offrire servizi di eccellenza, come fa il da Lei citato, e mio stimato collega e amico fraterno, prof. Ludovico Abenavoli, figura di caratura internazionale nel panorama medico-scientifico che si adopera alacremente per far crescere l’Università Magna Graecia attraverso, tra le altre cose, collaborazioni e seminari: occasioni di proficui scambi culturali e arricchimento per gli studenti, alle quali ho avuto l’onore di prestare il mio modesto contributo in qualche occasione. Mi auguro che l’esempio del prof. Abenavoli e di tanti altri come lui, serva a infondere fiducia nei catanzaresi e nei calabresi per un futuro migliore”.

Gli anni del Liceo classico “Galluppi”…

“Forse gli anni più belli: gli amici, quelli veri, con cui sono ancora piacevolmente in contatto. La scuola, con le sfide rappresentate da latino e greco. L’entusiasmo delle nuove conoscenze che preparavano al mondo universitario. Credo che la formazione delle scuole calabresi non abbia niente da invidiare a città più importanti, in Italia o all’estero, per quanto obiettivamente le infrastrutture impallidiscano al confronto.

Cosa ama di più a Catanzaro? E la Sua spiaggia preferita?

“Di Catanzaro mi piace ‘perdermi’ nei vicoletti, i ‘Coculi’. E scoprire scorci meravigliosi che a volte si aprono sulla vallata e altre rivelano piccoli gioielli rustici, altre ancora ti portano verso edifici ricchi di storia come il Complesso monumentale del San Giovanni, e infine ti guidano alle soglie di un bar o di un locale in cui ti accolgono profumi e sapori autentici. L’affetto è naturalmente per il mio quartiere, Mater Domini, ma pure per quello dove affonda le radici il ramo paterno della mia famiglia, Santa Barbara”.

Non ci ha detto ancora del Suo mare…

“Giusto! Eccomi. La mia spiaggia preferita è quella che frequento da quando ho memoria e dove ho casa: località Calalunga, a Montauro Scalo. A metà strada tra le perle di Pietragrande e Caminia e quella Soverato che rappresenta il baricentro imprescindibile dell’estate calabrese. Una spiaggia ampia, ma ancora semplice nella sua bellezza. Un panorama meraviglioso, che si esalta nelle albe mozzafiato. E un mare placato dalle insenature, che si lascia godere per tutta la bella stagione”.

Da quali passioni è animato Luigi Boccuto?

“Principalmente aiutare gli altri”.

In Italia quali sono i Suoi luoghi del cuore?

“A parte, ovviamente, la Calabria, Roma è sicuramente uno dei posti che considero e sempre considererò casa. Poi adoro Firenze e Venezia. E tra le mete meno famose, ho lasciato un pezzo di cuore tra le valli del Parco del Gran Paradiso e tra i mercati di Palermo”.

E nel mondo?

“Negli Stati Uniti, direi, New York e San Diego come mete turistiche. Ma se parliamo di posti che lasciano un segno nell’anima, direi la Monument Valley. In Europa, Parigi e Praga. E nel resto del mondo, Sydney”.

Qualche aggettivo per definire Roma e qualcun altro per Catanzaro e la Calabria.

“Roma è grande, avvolgente, caotica. Ma anche umana, ‘caciarona’, ma pure autorevole. Catanzaro è ruvida, asciutta come le rocce su cui sorge. Ma sotto l’aspetto esteriore, si cela una città generosa, semplice, genuina, forte dei suoi valori e delle sue tradizioni. La Calabria è una madre umile, ma amorevole. Dalla faccia magari segnata dal tempo e dai sacrifici. Ma che sa aprirsi in un sorriso che ti tocca il cuore come nessun altro posto al mondo”.

Se non in America, dove Le sarebbe piaciuto lavorare?

“Ho lavorato anche in Svizzera per due anni e mi sono trovato abbastanza bene. Ovviamente, mi piacerebbe lavorare in Italia, per motivi professionali e personali”.

Ci racconti una giornata tipo al Suo laboratorio di Greenwood…

“Abbiamo in media una riunione al giorno, spesso di prima mattina. Le prime cose da controllare sono le colture cellular. In genere il lunedì con i miei collaboratori facciamo il punto per la settimana, pianificando il calendario degli esperimenti. Pertanto, ogni mattina partiamo col verificare che le cellule siano pronte per le attività previste per quella giornata. Mi piacerebbe dire che spendo molto del mio tempo a progettare ed eseguire nuovi studi, ma molto più prosaicamente una buona fetta della mattinata passa tra telefonate, videoconferenze ed email varie: la ricerca oggi ha una vastissima componente collaborativa e spesso questi collaboratori sono sparsi per il mondo, quindi nella mattinata della costa atlantica americana ho la possibilità di interagire con i colleghi europei nel loro pomeriggio, oltre che con coloro che sono nella mia medesima fascia oraria.

Il pomeriggio e la sera sono invece dedicati a fare il punto sui dati generati o sulle analisi in corso, a scrivere referti o email riassuntive e a pianificare le attività dei giorni a venire. Oltre ai progetti di ricerca, svolgo anche attività didattiche attraverso lezioni o seminari e la supervisione di studenti che frequentano i nostri laboratory. Nel pomeriggio mi intrattengo a parlare con questi studenti e a rispondere alle loro eventuali domande”.

A 13 anni cosa voleva fare?

“Ero un discreto portiere di calcio. Ma non ho mai aspirato alla carriera professionistica: era una sorta di sogno e nulla più. Diciamo che razionalmente stava prendendo forma l’obiettivo di diventare un ricercatore. Anche se ancora non avevo messo la genetica nel mirino”.

Il Suo sogno di felicità?

“Portare il sorriso sul viso dei bambini che soffrono di autismo e altri disturbi neurocomportamentali. Liberarli dalle catene che impediscono loro di esprimersi e dimostrare il loro amore verso i propri genitori”.

Di cosa ha paura?

“Di non poter essere presente quando le persone a cui tengo di più hanno maggiormente bisogno di me”.

Nel migliore dei mondi possibili dovrebbe essere abolita la parola? 

“Incurabile”.

La Sua casa brucia: cosa salva?

“Un orologio regalatomi da mio nonno, una persona a me molto cara, che purtroppo non è più con noi”.

Il Suo ospedale brucia, cosa salva?

“I pazienti”.

Il Suo studio privato brucia, cosa salva?

“Il mio laptop, principalmente per salvare i dati dei pazienti”.

La pietanza preferita?

“Gli arancini ‘polpette’ di riso di mia zia: da piccolo li chiamavo ‘pepite d’oro’ per quanto fossero preziosi per me. E non posso naturalmente tacere del morzello per non fare arrabbiare i miei concittadini…”.

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