17 Ott Michele Cannatà e lo Studio Cannatà & Fernandes: da Polistena a Porto, per l’architettura responsabile e di qualità
Nella bella città del nord portoghese, intervista a tutto campo al professore e storico, tra estetica, urbanistica, economia, sociologia, e uno sguardo sempre affettuoso all’amata Calabria
di Roberto Messina
Sono passati oltre quarant’anni da quando, concluso il suo corso di studi di Architettura all’Università di Reggio Calabria (febbraio 1977) e organizzato insieme ad alcuni compagni di viaggio un tour in Spagna per un seminario di architettura (nel 1981), Michele Cannatà scopre la “Scuola di Porto” e poi conosce e frequenta grandi architetti spagnoli e portoghesi protagonisti della scena internazionale come Alvaro Siza Viera (1933) e Eduardo Souto de Moura (1952). La sua “via”, la sua peculiare “poetica”, vengono fuori allora, quando una giovanissima collega, Fatima Fernandes, di Porto, che ancora non ha concluso il suo percorso scolastico, gli insegna ad affilare la matita…
Nella magnifica capital do norte portoghese, con i suoi spettacolari ponti (tra cui uno di Eiffel) lungo il corso del fiume Duero che sfocia nell’Atlantico, diventata ultimamente trendy, oltre che sempre friendly, meta di studenti non solo Erasmus provenienti da ogni dove, attratti dall’ottima qualità di vita, dal livello e organizzazione dell’istruzione, e pure dalla nuova movida al ritmo dei cocktail con delizioso vinho do porto e dalla sostanziosa ed economica cucina locale ,con in testa il Bacalhau assado con le patate, abbiamo di recente incontrato con grande piacere Michele Cannatà. Architetto di punta del Paese lusitano e non solo, davvero di grande disponibilità, capace di vera accoglienza (da buon calabrese), persona di estremo interesse per la sua competenza culturale ad ampio raggio, che si rivela incontenibile nella conversazione mai banale, ma sempre accesa, illuminante, rivelatrice. Con lui, intanto una costante “lezione” di architettura, storia dell’arte, estetica, urbanistica, semiotica, economia…
A Porto (in italiano anche Oporto) – ed è questa la prima rivelazione fattaci da Cannatà – l’architetto ha trovato l’humus che cercava: un ambiente culturale e professionale con riferimenti concreti su cui confrontarsi, apprendere, e anche, come dice lui stesso scherzosamente, “copiare”, naturalmente copiando bene. È un fatto che senza un ambiente e una tradizione utili per progettare, diventi impossibile esercitare questo antico e straordinario mestiere in cui arte e tecnica devono collaborare, sostenersi, riassumersi e sublimarsi per poter creare condizioni migliori di spazi in cui abitare e operare, capaci di aggiungere valore alla vita delle persone. Un abitare e operare intesi in senso ampio: luoghi del lavoro, del riposo e del piacere.
Con la collega Fatima Fernandes, la collaborazione parte nel 1984, unendo la diversità delle provenienze e dei differenti background culturali in un percorso comune basato sulla volontà di fare Architettura in Portogallo, ma anche in Calabria e in qualsiasi parte del mondo. I territori su cui vedono la luce le opere del “duo”, con i numerosi collaboratori e stagisti del loro affermato Studio, sono infatti prevalentemente relazionati sui citati rispettivi luoghi di origine: problematici dal punto di vista della distanza dai grandi centri di produzione culturale; difficili per la mancanza di un contesto tecnologico contemporaneo; luoghi che non conoscono il diffuso benessere e la “tranquillità” delle società avanzate europee di cui, seppure geograficamente, fanno lo stesso parte. In oltre trent’anni, elaborano oltre trecento progetti, di cui il venti per cento effettivamente realizzato. Molti sono stati pensati per partecipare ai Concorsi. Altri, interrotti per vari motivi. E quelli realizzati, talvolta non sono corrispondenti alle intenzioni iniziali.
Negli ultimi anni, all’attività progettuale si è unito l’impegno nella divulgazione dell’Architettura, con la pubblicazione di vari volumi su quella moderna e contemporanea portoghese, in cui si è fatta ricerca e sono stati meritatamente scoperti nomi e opere non riportati nei libri di scuola. Con l’insegnamento alla “Escola Superior Artistica de Porto” con l’incarico di Progettazione architettonica da oltre venti anni, Cannatà e Fernandes si sono misurati, e si misurano, anche nel difficile compito della trasmissione dell’esperienza nella contraddittoria condizione in cui l’Architettura viene solo teoricamente praticata, e però restano lo stesso da trasmettere i suoi elementi fondamentali: il senso della proporzione; la dimensione fisica e spirituale; i materiali del progetto; il rapporto con le forme della tradizione indipendentemente dallo spazio e dal tempo.
A Porto e a Polistena, in provincia di Reggio Calabria, il lavoro di Cannatà e Fernandes è sempre stato pensato, come spazio per abitare e spazio per agire, con grande, maniacale attenzione. E ciò, in ossequio ad un loro “credo” fondamentale e irrinunciabile: il fatto che trasmettere ad una “scala reale” il modo di costruire lo spazio, costituisca la forma migliore per spiegare cosa possa fare l’architettura per rendere le persone più felici, senza dover per questo impegnare grandi risorse, o avere grandi quantità di metri quadrati disponibili.
“Uno dei nostri primi lavori – racconta con una punta di orgoglio Michele Cannatà – è stato la realizzazione di 27 alloggi a Polistena (1984-1988) in cui avevamo un’impresa di costruzione come cliente e, dovendo i costi essere contenuti nei limiti dell’edilizia di tipo pubblico, le disponibilità economiche erano minime. Il risultato ha avuto riconoscimenti a livello internazionale (Menzione speciale al Premio Palladio 1989) e una grande divulgazione editoriale in riviste e libri di Architettura. Un fatto che ci ha fatto ancora riflettere sulle potenzialità dell’Architettura come veicolo di propaganda culturale di territori ed aree normalmente conosciute come depresse e socialmente pericolose. Il Premio Internazionale Piranesi del 1996, con la realizzazione di una piazza nel piccolo centro di Melicucco (Rc) e la partecipazione alla Biennale di Architettura di Venezia del 1996 hanno confermato le possibilità di un’operazione di cambiamento sociale attraverso l’impegno del progetto e della pratica architettonica”.
Recupero e modifica dell’esistente, interpretazione normativa nelle nuove urbanizzazioni, abitare come rifugio e come fuga dalla vita urbana, caratteri specifici e neutralità ambientali, sostenibilità come razionalizzazione del processo progettuale, spazi condizionati e spazi condizionanti, durata e materiali del progetto, rapporti con la tradizione e con la storia dell’architettura: sono queste le significative tematiche che si ritrovano lungo il percorso di costruzione progettuale dello Studio Cannatà & Fernandes e che assumono caratteri prevalenti in relazione alle differenti occasioni in cui la casa unifamiliare è una delle tante possibili esperienze della contemporaneità.
Cominciamo da questo: ci può parlare meglio della relazione tra i luoghi dove è nato e la scelta di fare l’architetto?
I miei genitori erano dei bravi artigiani, in Calabria ce n’erano molti, anche se la maggior parte dei molti, durante gli anni, l’ho vista andar via. Mia madre, sarta. Mio padre muratore. La passione nel loro lavoro, l’indipendenza intellettuale, sono stati sempre i nostri valori di riferimento a cui ancor oggi mi aggrappo per superare le difficoltà della vita e della professione. Sapevo che i miei interessi di studio dovevano quasi naturalmente confluire in una formazione di tipo tecnico: geometra, o magari ingegnere. La presenza dell’Istituto Superiore di Architettura di Reggio Calabria a settanta chilometri dal mio paese, la possibilità di accesso al presalario con l’esenzione del pagamento delle tasse, mi hanno permesso di terminare gli studi e ottenere la laurea in Architettura.
Come sono stati gli inizi della professione?
Il febbraio del 1977, data della presentazione della tesi di laurea, corrispondeva a un periodo politico molto difficile. Pieni anni di piombo. Chiaramente non a Torino, Genova, Torino, Milano Roma o Napoli, ma le collusioni della criminalità organizzata con i settori della politica, anche nelle nostre aree facevano sentire la drammaticità del loro peso, e in un contesto in cui non trovavamo riferimenti di Studi professionali qualificati attivi sul territorio.
In questa particolare condizione sociale e politica, assieme ad altri giovani colleghi convinti, per ignoranza e per arroganza giovanile, delle proprie competenze, abbiamo costituto una Cooperativa di architetti per niente consapevoli della propria dimensione professionale. In pochi anni di attività e di esperienze, mi sono accorto del deserto culturale in cui navigavamo, e della condizionata qualità della formazione universitaria.
Cosa ha fatto per “cambiare”? Chi sono stati i Suoi “maestri”?
La prima cosa è stata prendere coscienza della distanza tra il dire e il fare. Avevo la possibilità di leggere libri, sfogliare riviste, viaggiare e confrontare differenti realtà. Le esperienze di lavoro mi hanno messo in contatto ravvicinato con la dura e triste realtà della professione, della politica delle Amministrazioni locali e dei gestori del nostro territorio martoriato dall’abusivismo edilizio e dalle piccole prepotenze di chi conta solo per appartenenza a gruppi politici o criminali. Una realtà che ho sempre creduto potesse essere cambiata. Dopo la militanza politica, dai collettivi studenteschi ai partiti della sinistra riformista, ho capito che l’unico modo per contribuire al cambiamento poteva essere acquisire strumenti disciplinari capaci di produrre un modo alternativo di costruire e modificare la realtà. L’occasione l’ho trovata nel 1981 partecipando ad un workshop internazionale in Spagna. Il contatto con un gruppo di giovani architetti portoghesi, tra cui Eduardo Souto de Moura, ha fatto il resto, con l’avvio e il consolidamento relazionale per l’effettiva comprensione della direzione da prendere e la scelta del metodo e dei riferimenti culturali. La cosiddetta Scuola di Porto, conosciuta internazionalmente per la produzione di Alvaro Siza (1933) uno dei grandi architetti viventi, costituisce il principale nesso nella costruzione della mia visione di Architettura come strumento di costruzione di una società migliore. Nel 1977, nell’aula magna della facoltà di Architettura di Reggio Calabria, ho avuto modo di ascoltare Siza presentare alcuni progetti realizzati durante gli anni successivi alla rivoluzione portoghese del ‘74. Un incontro che è stato determinante nella mia idealizzazione della disciplina architettonica e della sua influenza sulla società.
Mi chiedeva poi dei “maestri”? Per uno studente di Architettura che studia cinque anni una disciplina in cui la componente pratica è fondamentale, non avere possibilità di un minimo di tirocinio, è un danno pari a quello su un laureato in Medicina che deve affrontare la professione senza aver mai visto un ammalato: perciò incapace di fare una diagnosi accurata e di seguirlo nella cura. La facoltà di Architettura a Reggio Calabria, che doveva supplire alla mancanza di competenze professionali causate dalle basse logiche di programmazione politica assistenziale e clientelare con l’utilizzazione dello squilibrio per il vantaggio di pochi, non ha potuto sanare la desertificazione intellettuale e quella disciplinare. In questa realtà, i maestri me li sono cercati nei testi teorici, nelle architetture visitate alla scoperta di altre realtà. Sicuramente, la pratica più proficua è stata l’esperienza con Fatima Fernandes: una collaborazione a tempo pieno, senza pause, un apprendistato continuo, così come deve essere, in cui ogni progetto rappresenta una nuova esperienza, in cui le conoscenze acquisite si vanno a sovrapporre arricchendo il proprio bagaglio tecnico e culturale.
Molti dei miei “maestri” non hanno nome: un artigiano che mi ha spiegato come realizzare un dettaglio costruttivo; uno spazio illuminato da una luce zenitale; la sorpresa in un percorso appena tracciato da un uso che si perde nel tempo. Qualche mese fa, ascoltando la radio portoghese (Antena 2) ho sentito parlare di un libro di successo dal titolo: “La rivoluzione delle piante. Come l’intelligenza vegetale sta inventando il futuro del pianeta e dell’umanità”, di Stefano Mancuso. Sono corso a comprarlo e a leggerlo. Affascinante nella visione di un futuro migliore e facilmente realizzabile. Una lettura che mi ha fatto scoprire come il “Palazzo di Cristallo” realizzato a Londra nel 1851, una delle grandi opere della rivoluzione architettonica moderna, è un prodotto della razionalità del mondo vegetale. Una grande gioia anche scoprire che l’autore del saggio è calabrese come me, un grandissimo botanico, e non solo, e con piacere l’ho aggiunto alla lista dei “maestri”.
Portogallo e Calabria sembrano distanti… Come si è trasformato questo contatto in un riconoscimento di affinità e in un percorso di produzione di Architettura?
L’occasione del contatto con i giovani architetti portoghesi ha indotto scambi frequenti che hanno portato nell’’84 alla costruzione dello studio Cannatà & Fernandes con sede in Calabria. Con Fatima Fernandes, ho iniziato un percorso di vita e di lavoro che dura fino ad oggi. Una prima fase dello Studio di Polistena, tra l’84 e il ‘90, è servita per consolidare il metodo di lavoro in una costante attività di occasioni di pratica e continua ricerca di approfondimento e verifica dell’idea e dei significati dell’Architettura.
L’apporto di Fatima, appena completati i cinque anni di studio presso la ESBAP (Escola Superior de Belas Artes do Porto) è stato chiaramente l’elemento cruciale per scoprire i segreti dell’antico mestiere dell’architetto. Il periodo in Calabria è servito per consolidare le idee attraverso una dura disciplina di lavoro alla ricerca costante del migliore risultato in ogni opera nella quale ci siamo avventurati. Utilizzando la pratica di cantiere acquisita negli anni di collaborazione familiare, e grazie alla qualità di formalizzazione delle idee di Fatima, ho imparato a usare e controllare il disegno, a realizzare i modelli, ad approfondire la precisione dei dettagli, a sviluppare i concetti teorici in elementi costruttivi, a stabilire i rapporti dimensionali in una costante ricerca e studio di architetture esemplari.
Come mai avete deciso di spostare lo studio dalla Calabria al Portogallo, dal momento che avevate una notevole e qualificata produzione e abbastanza lavoro? Mi riferisco, per esempio, alle case di edilizia economica realizzate a Polistena tra il 1984 e il 1988, che hanno avuto numerosi riconoscimenti, tra cui la menzione speciale al Premio Internazionale di Architettura “Andrea Palladio” del 1989.
Prima dell’inizio dell’attività, non avevamo programmi precisi e di lungo periodo. La decisione di spostarci è stata determinata dalla situazione sociale e da nuove occasioni di lavoro. In particolare, la nascita di due figli e il ripetersi di fenomeni criminali di estrema crudeltà, sono stati decisivi per la ricerca di luoghi più tranquilli per vivere e lavorare. La vittoria ad un Concorso di progettazione in Portogallo nel 1989, e un invito ricevuto da Fatima come consulente per i lavori di un centro storico sulla frontiera tra Spagna e Portogallo, sono state le opportunità per riprendere i rapporti avviati nell’81.
Ma avete mantenuto lo Studio in Calabria. Cosa è cambiato con lo spostamento in Portogallo? Le differenze più evidenti?
Anche se lo spostamento è stato repentino, i legami e i rapporti di lavoro in Calabria sono rimasti in piedi per molti anni. Il Portogallo, da poco integrato nella Comunità Europea, aveva bisogno di colmare gli anni difficili della fine della guerra coloniale e del processo democratico dopo la rivoluzione dei garofani del ‘74. Un Portogallo che, pur con grande difficoltà economiche, ha avuto capacità di realizzare infrastrutture e servizi, e in tale contesto abbiamo costruito opere di modesta dimensione, ma, riteniamo, di grande valore sociale, come il restauro di un edificio del ’400 (1990) nel centro storico di Miranda del Douro, o la costruzione in un’area quasi desertica della regione del nord-est di una piccola cappella votiva (1992). Piccoli lavori, ma di grande impatto disciplinare. Contemporaneamente, in Calabria e in Sicilia abbiamo realizzato due opere significative e importanti per il loro carattere sociale e simbolico: la Piazza “Nicolas Green” a Melicucco, Rc (1992) e il Centro di recupero tossicodipendenti FARO a Messina (1994). Geografie differenti, altre situazioni, ma equivalenti difficoltà per realizzare opere di Architettura.
Due vostre opere portoghesi di cui vogliamo parlare.
La stazione degli autobus di Mogadouro, che ci ha dato l’opportunità di aprire un dialogo con gli amministratori del Comune e riuscire, attraverso proposte specificatamente architettoniche ed urbanistiche, a modificare la programmazione che stava alla base del concorso. L’oggetto specifico, la stazione degli autobus, si è trasformato in un progetto di una nuova centralità urbana; nel recupero di un’area degradata; nella localizzazione di nuove funzioni; e in un elemento propulsore della riqualificazione di edificazioni limitrofe.
Guimarães, Capitale Europea della Cultura nel 2012, la vittoria al Concorso per la realizzazione di un edificio a servizio di un’area agricola pregata, denominato Laboratorio del Paesaggio. Si è trattato di sviluppare il progetto nell’ambito di una volumetria esistente, mantenendo l’impianto e i caratteri formali. Una preesistenza caratterizzata da una geometria irregolare, presenza di contatto con l’acqua, sistema costruttivo delle murature perimetrali in granito locale e una evidente alterazione delle volumetrie originali. Il progetto ha evidenziato l’immagine originale, interpretando le alterazioni volumetriche come elemento di riconoscibilità del nuovo intervento.
Ho avuto modo di visitare l’Istituto universitario – Escola Superior Artistica do Porto-ESAP, nel quale Lei e la Sua signora\collega insegnate nel corso di Architettura. Può parlarmi dell’esperienza come docente?
É importante dire che si tratta di un Istituto universitario molto speciale, una struttura di carattere privato e specificamente una Cooperativa. Una scuola d’Architettura e di Arte in cui si è inteso sin dalla costituzione dare idealmente continuità alla metodologia Bauhaus (1919-1933) riconosciuta come scuola dell’avanguardia dei movimenti artistici moderni. Sia io che Fatima, siamo stati invitati a insegnare nel 1997, per la semplice ragione che eravamo degli architetti di opere cui era stata riconosciuta importante qualità, qualità da mettere al servizio della Scuola per la formazione di futuri architetti.
L’inizio dell’insegnamento ha coinciso con un’interessante attività di divulgazione delle tematiche di attualità sull’Architettura contemporanea e con una fortunata occasione per realizzare sperimentazioni che potremmo definire “da laboratorio”. Mi riferisco tra le varie cose alla pubblicazione di un libro sull’Architettura moderna portoghese (Moderno Escondido) nel 1997; ai dibattiti, conferenze ed esposizioni nell’ambito delle Fiera Internazionale dei materiali della costruzione; alla realizzazione di una serie di prototipi (la Casa Intelligente, come abitazione contemporanea nel 2002; i moduli autosufficienti nel 2003; le unità domestiche del 2004).
Nella Sua biografia c’è la presenza alla Biennale di Architettura di Venezia nel 1996 e alla Triennale di Architettura di Milano sul tema dello spazio pubblico, e nel 1997 il Premio Piranesi in Slovenia. Che valore attribuisce a questi riconoscimenti?
L’ottenimento di un riconoscimento internazionale è cosa importante dal punto di vista professionale e da quello sociale, e potremmo anche dire, etico. Professionalmente, permette di verificare il proprio lavoro e confrontarsi con un livello di dibattito e di ricerca internazionale e contemporaneo. Dal punto di vista sociale ed etico, la localizzazione del progetto, in qualche modo diventa anche una maniera di affermare un momento di produzione culturale in contesti normalmente connotati dalla sottocultura prodotta da singoli individui legati ad organizzazioni tutt’altro che benefiche. I titoli sono utili per affermare i valori universali della pratica artistica dell’Architettura, come indipendente dal luogo, dall’economia o dalle dimensioni dell’opera.
Quali sono le principali differenze tra lavorare in Italia e lavorare all’estero ed in particolare a Porto?
Pur avendo elaborato progetti per vari Paesi, in realtà abbiamo realizzato opere solo in Italia e in Portogallo, i nostri luoghi di origine, nei quali non abbiamo mai avuto problemi di comunicazione o comprensione. In ogni caso, riteniamo che l’Architettura comunichi una forma universale. Fare Architettura, non è più facile o più difficile se si realizza in un luogo o in un altro. Il luogo, come il cliente, è una variabile del progetto che permette di affermare l’eccezionalità di ogni iniziativa. Fare Architettura è continua sorpresa. Ogni opera, un’avventura in cui l’esperienza diventa sempre punto di partenza per altri e nuovi risultati.
Ci dica di più su Porto e la sua specificità architettonica...
È la città da noi eletta per abitarci e lavorare. Una città speciale, difficilmente rapportabile a un’altra conosciuta. Una città della quale il granito definisce il colore e l’acqua del Douro e dell’oceano disegna i contorni. Volumi di pietra grigia, prevalentemente scura, con il rosso delle coperture punteggiate dai lucernari e dalle eccezioni degli edifici monumentali. Facciate compatte, in cui le superfici vetrate si alternano alle piastrelle colorate, caratterizzano il nucleo più antico e più vivo della città, da oltre venti anni Patrimonio mondiale. Un’apparente omogeneità, che a uno sguardo più profondo e più attento, lascia intravedere una multiculturalità segnata dalle testimonianze di differenti periodi di storia urbana. Una specificità attualmente posta in pericolo da processi di turismo incontrollato, che nella sua dimensione identitaria e originale costituisce un terreno fertile per affondare le nostre radici e dare continuità al processo vitale e culturale iniziato nel 1977 con una conferenza sull’Architettura della rivoluzione, a tremila chilometri di distanza da qui…
Esiste un filo rosso, un’idea, una “poetica” nella quale, attraverso i progetti, riconoscete dei valori da trasmettere e/o rappresentare?
Tutti i nostri lavori realizzati sono di “modeste” dimensioni e si misurano con le condizioni del contesto in termini economici e culturali. A questo contesto abbiamo voluto attribuire il doppio senso contenuto nella parola limite. Mi piace dire, che lavoriamo sempre sul “limite” inteso come punto estremo di possibilità di dialogo con il committente; “limite” come possibilità di utilizzare i materiali che consideriamo più qualificati per esprimere le nostre intenzioni progettuali; “limite” nella relazione progettista/costruttore; “limite” come misura delle nostre capacità di completare un processo a partire dall’idea/intenzione.
Un aspetto non secondario, che occorre sottolineare, è poi il luogo in cui i nostri lavori si localizzano: in Italia e in Portogallo, su territori di intervento in zone fragili in termini di risorse culturali, povere di economia e ricche invece di straordinari e bellissimi paesaggi. Luoghi, purtroppo, sempre più colpiti da modalità di intervento indiscriminato e dal tentativo di sfruttare le grandi qualità paesaggistiche, producendo ferite irreversibili e perdita di valori. Interventi feroci, che ignorando la lezione storica del dialogo natura/artificio, mettono seriamente in discussione ed in pericolo quel patrimonio umano che si è stabilito di chiamare monumenti, centri storici, o semplicemente “Architettura”.
E allora, in sintesi, la Sua idea di Architettura?
Un’opera di Architettura rappresenta, per me, un frammento di utopia realizzata che assume il significato di ricerca dell’ideale. Ci sono sempre due aspetti che seguiamo nei nostri progetti: il pubblico/collettivo e il privato/individuo. In forme diverse, si confrontano con questa duplice relazione.
Il nostro lavoro parte da occasioni: un interno per un amico; degli alloggi economici per persone che non conosciamo; uno spazio pubblico; un Concorso; una casa sperimentale, la ristrutturazione di uno spazio esistente per un luogo di lavoro contemporaneo, ecc. Le immagini dell’abusivismo e del contrasto tra spazio pubblico e spazio privato sono state lo sfondo e il paesaggio (Piana di Gioia Tauro, anni ’80) sul quale abbiamo cominciato a lavorare. In tali contesti, abbiamo costruito la nostra idea di qualità, in cui la porta di una casa, o la porta di una chiesa, dimensionalmente differenti, devono mantenere la stessa attenzione e garantire la massima qualità. Basta un gradino di ingresso disegnato di una piccola casa (Casa Marchetta, 1990), per segnalare il passaggio dal pubblico al privato, ed esprimere il rispetto dell’individuo verso la collettività.
Come sta vivendo questa situazione pandemica e quali riflessi vede nel Suo lavoro?
Le tragedie, le guerre e i disastri, hanno sempre avuto delle conseguenze sugli spazi collettivi. La storia della città e dell’architettura è testimone dei cambiamenti, delle rivoluzioni e delle tragedie. La pandemia, ritengo, dovrà essere considerata come un ulteriore episodio che può ritardare e modificare alcuni comportamenti e programmi, ma non mettere in discussione le idee che sono alla base del nostro lavoro.
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