Lino Patruno, il jazz e lo swing

Intervista al grande jazzman originario di Crotone, personalità eclettica e anche geometra di formazione, dopo l’ennesimo Premio, stavolta “alla Carriera” del mitico “Cotton Club” di Roma.

di Roberto Messina

Ultimo in ordine di tempo, il Premio alla Carriera del “Cotton Club” di Roma, venuto a sancire un percorso artistico, professionale ed umano di prim’ordine: quello di Michele Patruno, detto Lino, crotonese di nascita (1935), romano d’adozione, cittadino del mondo e cittadino (con l’onore della consegna delle “chiavi”) di New Orleans, la sua seconda patria, la dimora dell’anima sua…

Autodidatta, ma con studi musicali approfonditissimi. Polistrumentista (chitarra, contrabbasso, pianoforte, ma soprattutto banjo). Incommensurabile esperto del jazz classico e di dixieland. Compositore di colonne sonore per il cinema ed il teatro. Uomo di cabaret. Autore e conduttore di programmi tv. Incredibile collezionista di dischi. Storico e insegnante. Ma anche, è questa la scoperta…, geometra! E’ la sintesi di una personalità straordinaria, dal fervore inarrestabile, dalla contagiosa capacità di relazionarsi con gli altri: gli altri della musica soprattutto, i baldanzosi cugini del jazz…

Nella sua abitazione romana a Montemario, tra una miriade di libri, cd, videocassette, nastri, strumenti musicali, foto, brochure, programmi di sala, tutti maniacalmente ordinati in file geometriche, in quello che può definirsi un vero “sancta sanctorum”, avviamo la chiacchierata con questo superbo testimonial della forza e della bellezza del jazz. I dischi, gli chiediamo per cominciare… un rapporto viscerale.

“Da Crotone la mia famiglia si è trasferita ad Avigliana, in provincia di Torino, poi a Tarquinia, quindi a Roma, nel’45. Tramite mia zia Elena, interprete pres­so le forze armate americane, ebbi in mano i famosi ‘Victory disc’ prodotti dal Dipartimento di Stato statunitense e distribuiti alle truppe per tener alto il morale. Glenn Miller, Benny Goodman, Artie Show. Un colpo di fulmine. Poi su un grammofono prestatomi da un amico, ascoltai “Muskrat Ramble” e “Tin Root Blues” su un 78 girl della Roman New Orleans Jazz Band. Una vera folgorazione, accentuata da “Perdido Street Blues” dei New Orleans Wonderers di Johnny Dodds”.

Dal jazz al cabaret, con i Gufi…
“Nei primi anni ‘60 a Milano lavoravo per la Ricordi e le etichette CBS e Blue Note. Suonavo con la Riverside Jazz Band al Santa Tecla e al Capitan Kidd di  Nanni Svampa e Roberto Brivio: un vero tour de force. Ressi qualche mese, poi dovetti rinunciare al jazz, perché il successo inaspettatamente clamoroso dei ‘Gufi’ a teatro, non lasciava spa­zio a molto altro”.

Cosa ricordi del periodo di studi all’Istituto per Geometri? In quale città ha fatto la scuola?
“Avevo frequentato un istituto per perito ottico, ma ero stato bocciato al secondo anno. Per non ripetere lo stesso anno nello stesso istituto, decisi di cambiare con qualcosa di più consono alla mia personalità; optai per l’istituto per Geometri e ci arrivai direttamente al secondo corso. L’istituto era il Carlo Cattaneo di Milano”.

Ricordi, rimpianti di quegli anni?
“Ricordi, tanti. Rimpianti… Beh ero spensierato, come tutti quelli che hanno 14, 15 anni!”

Tra i tanti musicisti stranieri con i quali hai suonato, come Venuti, Freeman, Davern, chi ricordi con maggior piacere?
“Il sommo violinista Joe Venuti, il primo a inserire il violino nel jazz degli anni ‘20. Una grande intesa e una vera amicizia, cominciata nel 1971 al festival jazz di Bergamo”

E Pupi Avati?
“Ci incontrammo a Bologna sul finire degli anni ‘50, suonava nella Rheno Dixieland Band di Nardo Giardina. Un giorno a Roma mi disse: ‘faremo un film su Bix’. E così fu. Registrammo la colonna sonora in soli 5 giorni. Un miracolo”.

Albert Nicholas, è il primo musicista “storico” del jazz col quale hai inciso un disco.
“Il primo, con la Emi, quando ancora i discografici erano esseri umani, sensibili alle iniziative culturali”

I primi grandi musicisti moderni americani con cui sei venuto a contatto?
“Chet Baker, suonammo a Lucca; poi il sassofonista Paul Desmond; quindi Joe Zawinul e Lilian Terry; poi Don Cherry, Chet Baker, Charlie Mingus, Thelonious Monk, Dizzy Gillespie, Gerry Mulligan…”.

I tuoi strumentisti preferiti?
“I chitarristi. Suono la chitarra e per i grandi di questo strumento ho ammirazione e invidia”

Sei stato direttore di tre Festival: San Marino, Mosciano Sant’Angelo e Crotone…
“Belle esperienze. Mi dispiace per quello della mia Crotone, finito nel più totale disinteresse…”

Com’è, cos’è oggi il jazz?
“Ha perso smalto, ha smarrito il linguaggio, i suoi colori, i suoi sapori, il rapporto con la storia. I musicisti di oggi non conoscono il jazz di ieri, e addirittura lo detestano perché non è suonato a 50 note al secondo. Musicisti veloci, come fossero atleti spinti verso il limite… Vince chi fa più note al minuto. Di melodie non vogliono sentir parlare. A Lester Young bastava una nota per fare del jazz!”.

Che dici di Umbria Jazz?..
“Perché non cambia nome? Umbria Pop o qualcosa del genere? Di jazz non se ne fa quasi più, di dintorni, tanti. Secondo me Ellington, Waller, Bix, Godman, Bechet continuano a rivoltarsi nella tomba…”.

Come vedi la tv di oggi?
“Come la burocrazia; è l’arte del nulla e, come la burocrazia, di essa non resterà niente, anzi solo degli irreparabili danni morali e culturali”.

Un giovane musicista da segnalare?
“Luca Filastro, di Amaroni, un vero talento, giovane ma già con lo stile di Jelly Roll Morton, e non esagero…”.

Riproduzione, anche parziale, vietata.

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