Leonardo Vinci, una vita da grande musicista nella Napoli del ‘700, finita in un “giallo”

Francesco Stumpo dedica un libro alla ricostruzione dell’opera, e soprattutto della misteriosa morte, del sommo compositore di Strongoli (Kr), protagonista dell’opera musicale napoletana, amico e collaboratore di Metastasio, e con vari allievi celebri, tra cui Giovanbattista Pergolesi. La sua opera “Le zite ‘ngalera” ritrova recente successo lo scorso mese di aprile 2023 nel cartellone del Teatro alla Scala di Milano, con diverse repliche e apprezzamento di critica e pubblico

La copertina del libro
di Francesco Stumpo

“Il cold case di Leonardo Vinci”, edito da Publigrafic, è il puntuale libro del chitarrista e musicologo calabrese Francesco Stumpo (come la casa editrice, anche lui di Cotronei, Kr) dedicato alla vita del grande compositore settecentesco Leonardo Vinci, da Strongoli (Kr), incentrato in particolare sulla sua prematura morte, avvenuta nel 1730 per avvelenamento (o forse anche, così si è ugualmente narrato, per debiti di gioco; o ancora, per vendetta sentimentale). Una bella idea letteraria, materializzatasi in un avvincente romanzo giallo che cerca la “soluzione” della sua misteriosa fine proprio come in un moderno thrilling.

Molti lo confondono con Leonardo da Vinci per l’evidente omonimia, ma Leonardo Vinci, calabrese di Strongoli (Crotone) nato nel 1690 o 1696, è in effetti vissuto due secoli dopo il genio toscano, e come tanti suoi corregionali del tempo, dalla Calabria è partito alla volta di Napoli, per studiare musica al “Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo”, Istituto fondato nel Cinquecento dal francescano Fra Massimo Fossataro (anch’egli calabrese, di Nicotera) e poi chiuso a metà del Settecento per ordine di un altro calabrese, il Cardinale Spinelli. In quegli anni, come per gli altri tre Conservatori napoletani (il Regio Conservatorio “San Pietro a Majella” è posteriore, vedendo la luce con i primi dell’Ottocento) si tratta di veri Orfanotrofi, dove Vinci entra come pensionante.

Dopo pochi anni di studio, “lo Strongoli”, così come lo chiamano tutti per la sua provenienza, si fa notare per la rapidità e abilità nel comporre brillanti commedie musicali rappresentate con grande seguito al “Teatro dei fiorentini” (il “San Carlo” non era stato ancora costruito) dove viene in contatto con Paolo di Sangro, Principe di San Severo, che lo apprezza e lo nomina Maestro di Cappella e insegnante personale dell’allora piccolo Raimondo di Sangro, che diventerà a sua volta Principe di San Severo, passando alla storia per aver realizzato la famosa e omonima cappella nel cuore della città, con l’incredibile scultura-capolavoro “Cristo Velato” di Giuseppe Sanmartino.

Leonardo Vinci in disegni\ritratto dell’epoca

Vinci si caratterizza in breve come compositore tra i più originali e prolifici della gloriosa Scuola operistica napoletana, e nella sua prima stagione produttiva dà alla luce intermezzi comici e commedie musicali che anticipano le grandi “opere comiche” del sommo Giovanbattista Pergolesi (che fu suo allievo) e quelle degli altri giganti Mozart e Rossini. Tra le sue apprezzate composizioni, c’è “Le zite ‘ngalera”, su libretto di Bernardo Saddumene, opera riscoperta e rilanciata in tempi moderni dal grande e versatile compositore e musicologo napoletano Roberto De Simone, che ne ha curato la regia assieme a quella della sua celebre “Gatta Cenerentola” andate in scena entrambe nel 1978 al Teatro della Pergola di Firenze, con Peppe Barra nel ruolo dell’anziana Meneca (senza stupirsi di un uomo interprete di una donna, in quel tipo di spettacolo una cosa assai frequente, così come il contrario).

È di fatto, questa, tra le prime opere in dialetto napoletano, e la sua freschezza comunicativa, insieme alla cantabilità delle arie, la faranno poi entrare di diritto nel repertorio della Nuova Compagnia di Canto Popolare Napoletano, e quindi interpretare con passione da popolari artisti partenopei moderni come Roberto Murolo e Sergio Bruni. “Le zite ‘ngalera” ha ritrovato recente successo appena lo scorso mese di aprile 2023, proposta nel cartellone del Teatro alla Scala di Milano con diverse repliche e grande apprezzamento di critica e pubblico.

Altre sue opere come “Lo cecato fauzo”, rappresentata a Napoli al Teatro dei Fiorentini, e “Le ddoje lettere”, conoscono altro immediato successo, assieme a quellepresentate al Teatro nuovo (“La mogliera fedele” e “La festa di Bacco”) dopodiché Vinci inizia a dedicarsi al genere serio, componendo “Publio Cornelio Scipione”.

A seguito della notorietà ottenuta, viene invitato a Roma nel 1724, dove fa rappresentare il “Farnace”, su libretto di Antonio Maria Lucchini. Al Teatro Alibert, la interpretano Domenico Gizzi, virtuoso della Real Cappella di Napoli, nel ruolo di Farnace, e Carlo Broschi, il celebre Farinelli… Nello stesso anno scrive due opere per la città di Napoli, e nel 1725 una per Venezia: ”Ifigenia in Tauride. Nel 1728 si aggrega alla confraternita del SS. Rosario presso la chiesa di Santa Caterina a Formiello a Napoli, e nello stesso anno, dopo la morte di Gaetano Greco, ottiene anche il posto di maestro di cappella al Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo, che lo aveva visto suo umile allievo.

La locandina de “Li zite ‘ngalera”, l’opera di Vinci rappresentata alla Scala di MIlano

L’ultima opera, “Artaserse” viene rappresentata nel 1730 a Roma lo stesso anno in cui Vinci muore in circostanze non chiare. Secondo le testimonianze del Metastasio e del Frugoni, pare fosse un “bon vivant”, e sarebbe deceduto a seguito d’un avvelenamento. Viene sepolto nella chiesa di Santa Caterina a Formiello, per interessamento della sorella del cardinale Ruffo, che provvede a sostenere le spese, dato che il musicista era in povertà.

La produzione di Leonardo Vinci comprende, oltre ad opere buffe e serie, anche oratori, molta musica sacra, e varie composizioni strumentali. Una delle caratteristiche della sua musica resta la grande  melodiosità, la cantabilità: tratto tipico, d’altronde, della scuola napoletana, con la riduzione del contrappunto all’essenziale, che consente alla linea vocale di risaltare a pieno.

Nella sua vita, decisivo fu l’incontro con Pietro Metastasio, il maggior poeta del tempo, anche lui legato alla Calabria per avervi passato molto tempo ospite di Gian Vincenzo Gravina (di Roggiano Gravina, Cs) fondatore dell’Arcadia, e di suo cugino il filosofo Gregorio Caloprese. Con Metastasio scrive sei melodrammi di argomento storico: il primo, la “Didone Abbandonata”, e l’ultimo l’“Artaserse”, rappresentati a Roma nell’allora “Teatro delle Dame”.  “Artaserse”, come detto, nel 1730, anno in cui Vinci muore senza potersi godere il successo che viene tributato all’opera (“Il povero Vinci non ebbe successo né da vivo né da morto” – scrisse allora Metastasio, mentre prendeva la via di Vienna, come poeta cesareo).

Francesco Stumpo

La trama del libro.

Siamo alla fine del Seicento, Leonardo Vinci è un bambino di dieci anni che cresce a Strongoli in Calabria. Dimostra ben presto un eccezionale talento musicale, dandone dimostrazione nel Duomo del paese. Comincia a prendere lezioni di musica dai francescani, mentre un contadino gli insegna gli accordi sulla chitarra. Suo padre ha un posto di lavoro prestigioso presso il principe Pignatelli e, quando quest’ultimo si trasferisce a Napoli, capitale del vice regno borbonico, è seguito dalla famiglia dei Vinci. All’età di dodici anni, Leonardo entra nel Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo come pensionante, con l’intento di studiare musica con uno dei più grandi maestri del tempo: Gaetano Greco. Gli viene dato il nomignolo de “lo Strongoli” per via della sua provenienza. In pochi anni brucia le tappe e passa da “figliuolo” a “mastriciello”, cioè aiutante del maestro nella didattica. Tra questi c’è il giovane castrato detto “Gondolino”, in quanto proviene da una nobile famiglia di Venezia che è l’altro grande centro musicale italiano del Settecento. Intanto, tra l’invidia dei suoi colleghi, Leonardo si afferma come operista e, dopo la rappresentazione della commedia musicale “Le ddoie lettere” al teatro San Bartolomeo, viene notato da Paolo di Sangro, Principe di San Severo, che lo vuole come maestro della sua Cappella. Qui diventa insegnante del giovane Raimondo di Sangro, nipote di Paolo e futuro Principe di San Severo. Il ragazzo è dotato di spiccata intelligenza e una certa propensione per l’alchimia e l’esoterismo. Tra Leonardo e Raimondo nasce una complicità, e i due soffriranno quando il giovane rampollo andrà a studiare dai Gesuiti a Roma. Intanto Leonardo conosce il poeta Pietro Metastasio in casa della “Romanina”, Teresa Bulgarelli, famosa e ricca cantante che ha assunto il ruolo di protettrice del Metastasio, che è invece di origini modeste, ma letterato molto talentuoso. Leonardo intanto entra nel circolo vizioso del gioco d’azzardo e a prestargli i soldi per saldare i debiti è spesso una Contessa romana, sua amante. Raimondo torna a Napoli per il suo compleanno, un pretesto per rivedere l’amico Leonardo. L’occasione è data dall’allestimento dell’opera “Didone abbandonata” di Domenico Sarro, su libretto di Metastasio. Leonardo ha una gran voglia di musicare quel soggetto che lo riporta agli anni della fanciullezza a Strongoli, quando sua madre gli raccontava, sotto forma di fiaba, le storie di Annibale cartaginese, Filottete e Enea. Dopo due anni, anche lui musicherà la Didone con risultati molto più interessanti e innovativi rispetto a quella di Sarro, che ha per Vinci una sorta di ammirazione mista a invidia. La rappresentazione della Didone di Vinci sarà al teatro delle Dame di Roma, dove Raimondo aveva fatto intanto ritorno. Una cartomante predice a Leonardo che a breve ci saranno tre morti nell’ambiente dei Poveri di Gesù Cristo. Leonardo viene trovato morto nella sua stanza, con il sospetto, poi confermato, di avvelenamento. Un ispettore dei cursori dell’Arcivescovo, si mette sull’unica traccia trovata: un biglietto con una misteriosa scritta.

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