MIMMO CAVALLARO, UNA STAR locale e globale

Il cantante e autore di Caulonia (Rc) reinterpreta in chiave pop la tradizione musicale calabrese. E’ conosciuto in tutto il mondo, acclamato da migliaia di persone, vanta innumerevoli tentativi di imitazione. E mantiene il suo centro di gravità e di ispirazione nella Locride. Il suo successo è mostrarsi per quello che è. Non spiega, incarna. Non racconta. Vive. La Calabria, la musica della Calabria, la cultura della Calabria. Una prova? La sua biografia. 

di Bruno Giurato

Tranquillo pomeriggio di mezza estate. Fa capolino il tramonto calabrese, e sono cieli alti, raggi solari come colonne di luce che sostengono la sera da passare, la notte che arriva, le cose di domani. Mimmo Cavallaro esce da una sessione di registrazione nel suo studio casalingo, in contrada Vasì, Caulonia (Reggio Calabria) di fronte a un orto lussuoso di frutti: zucchine, melanzane, pomodori, cetrioli, peperoncini. Un altro musicista parlerebbe di note, di strumenti, di timbro di voce, di plugin da usare sul software di registrazione, o di altri musicisti: belli/brutti/simpatici/antipatici. Per molti artisti parlare di arte, o di colleghi, è un modo di fare arte (o magari di evitare di farla, la coscienza forse è solo un inciampo del pensiero, e quella che gli americani chiamano “anxiety of influence” è un sentimento paralizzante), per Cavallaro no. Ha finito di suonare. Ti mette in mano una lattuga dell’orto. 

Mimmo Cavallaro ritratto da Mikos Cutrupi
(qui sopra e nella foto di apertura)

Mimmo Cavallaro è un esempio atipico di star locale. Ha fatto concerti in tutta Europa e anche fuori (Canada, Sudamerica, Australia, Giappone), ha partecipato diverse volte al concertone del Primo maggio a Roma, ha collaborato con musicisti di livello nazionale e internazionale (è stato portato alla notorietà dal gran cercatore e trovatore di talenti e melodie, Eugenio Bennato), ma il centro del suo potere musicale, e anche sciamanico/taumaturgico, rimane la Calabria, la Locride, Caulonia. In Calabria, quando suona col suo gruppo, riempie piazze fino a cinque–diecimila persone, nella Locride sono nate varie band che non solo si ispirano alla sua reinterpretazione della tradizione calabrese in chiave pop, ma ne imitano passo passo il timbro di voce, il repertorio, gli arrangiamenti. E, attenzione, questo in Calabria non era mai successo. La musica italiana ha avuto qualche protagonista calabrese, e cito solo i più noti e i più belli, come le sorelle Loredana Bertè e Mia Martini, e Rino Gaetano, ma il loro successo è sempre arrivato dopo che l’industria musicale nazionale li aveva prodotti, “lavorati”, proposti a un pubblico ampio, fuori dalla regione più misteriosa d’Italia. Solo allora sono stati accolti, di ritorno, in Calabria sull’onda di un mainstream pop che filtrava attraverso radio, tv e giornali. E il loro linguaggio musicale non aveva nulla di regionale, se non fosse per qualche inflessione nel timbro di voce che riporta a origini diverse da quelle solite, belcantistiche o “urlatrici” che siano, del pop italiano. Per Cavallaro vale il discorso opposto. Il suo è un successo che non viene dall’alto e da fuori, viene dal “basso”, da “dentro”.

L’abituale, incontenibile entusiasmo “coreutico”
che si scatena puntualmente ed immancabilmente
ai concerti di Mimmo Cavallaro

Un successo che nasce da un bisogno, sociale, artistico, linguistico: ascoltare parole nel proprio dialetto; ascoltare suoni che non siano il mondo sonoro presente su tutto il pianeta nell’onda lunga del pop, del rock, della dance, adesso della trap; rivivere racconti che non siano quelli ormai consueti di amore e violenza in periferia, come per il rap o derivati, che non siano recupero intellettuale di forme antiche su testi “critici”, come per certo cantautorato, che non siano l’infinito (e peraltro divertente) sbraco su sole, cuore, amore che accomuna i tormentoni estivi e certi successi di Sanremo.

Chi ascolta Cavallaro, e sono numerosi quelli che si presentano a tutti i suoi concerti, seguendolo tappa dopo tappa in giro per la Calabria e oltre, lo fa per conoscersi. O meglio, per riconoscersi. La nuova onda della musica popolare è iniziata con gli anni duemila a seguito di alcune manifestazioni che hanno riportato nei paesi i suonatori tradizionali, ed è seguita a decenni di rifiuto, in particolare in Calabria, della propria cultura musicale. A differenza della Sardegna, della Puglia, della Campania, la musica popolare in Calabria è poco conosciuta e spesso, quasi sempre, rifiutata. Ogni vero o presunto “superamento” implica un sacrificio, il passaggio dalla condizione originaria di quasi tutti, l’appartenenza alla cultura agro-pastorale, alle nuove misure di benessere borghesi, dagli anni 60-70 in poi, ha comportato il rifiuto della musica, di cui la Calabria era ricchissima. Pochi sanno che nella regione sono presenti cinque tipi di zampogne, quasi nessuno conosce il repertorio della chitarra battente.

Cavallaro intervistato da Radio 1

A chi scrive è capitato di sentire dire da un anziano che la battente è “quella con le corde fine”, non un vero, “serio”, strumento. Aggiungiamo anche che alla musica popolare è spesso associato quell’oggetto pericoloso chiamato mafia, ed ecco un altro valido motivo di rifiuto. È andata così per un paio di generazioni: l’identità musicale calabrese si è stemperata in un grande “boh”, che poteva contenere tutto, dal reggae alla popmusic. I “cantanti” alle feste di paese erano tradizionalmente quelli dell’area di Sanremo. Allo stesso modo l’identità culturale (cioè il modo di specchiarsi e di riflettere il mondo) è rimasta sospesa tra un “non vorrei stare qui” per chi c’è, e un “vorrei tornare” per chi non c’è, come ha raccontato magistralmente l’antropologo Vito Teti in diversi suoi saggi. Per paura di risultare troppo paesani i calabresi si sono scoperti troppo provinciali.

E ora, finalmente, prevale l’esigenza di conoscersi, ed è chiaro che doveva nascere qui. Dal “basso”. Da “dentro”. Capita nella vita delle persone e nella vita delle collettività: l’ansia di andare avanti, di andare fuori, di andare oltre, l’ansia del superamento, viene sostituita dal qui e ora. Con Mimmo Cavallaro è successo questo. 

Nemmeno a dirlo, Mimmo Cavallaro non è neanche, precisamente, un ricercatore della musica popolare. È vero, dalla giovinezza in poi ha girato non poco le campagne intorno a Caulonia, con un Philips a cassette per riportare alla memoria “strine” (canti di saluto), ninne nanne, canti della mietitura, serenate, eccetera, ma non appartiene alla categoria dell’etnomusicologo. Il ricercatore vero fa un altro tipo di lavoro: registra, cataloga, studia, scrive saggi. Si pone, per così dire, un gradino sopra il materiale musicale- e a volte bisogna dirlo, umano – con cui ha a che fare. Un ricercatore è uno studioso, Mimmo Cavallaro è un artista. La verità della rappresentazione, come sempre, è uno schermo che protegge, ma rappresenta, un modo di nascondersi e di mostrarsi. E il successo di Mimmo Cavallaro è mostrarsi per quello che è. Non spiega, incarna. Non racconta. Vive. La Calabria, la musica della Calabria, la cultura della Calabria. Una prova? La sua biografia. 

Mimmo Cavallaro è nato a Gozza, una costa di campagna che dista da Caulonia venti chilometri. E non venti chilometri di placida strada statale, ma di mulattiera. È uno dei luoghi più remoti e solitari del vasto comune cauloniese. Niente elettricità (arriverà negli anni Ottanta), niente acqua corrente, niente gas, niente telefono. L’unico a possedere una radio era lo zio, e la accendeva solo la sera per ascoltare il notiziario, quello che veniva chiamato “u comunicatu”. La vita era scandita dalle giornate, dalle stagioni, dal lavoro dei campi. La cultura era quella orale, il paesaggio simbolico era quello della calabria millenaria, in cui i secoli si perdono sullo sfondo di fatti, figure, atti, che sconfinano nel mito. E che sono perfettamente veri.

Alcuni dischi dell’artista

Cavallaro racconta di un bambino quasi della sua età. Al passaggio di una misteriosa signora forestiera il bambino rimane incantato: non parla, non risponde, rimane ore con lo sguardo fisso nel vuoto. Solo alla fine di un rituale apposito il bambino tornerà “in sensi”, e riprenderà la vita di sempre. Cavallaro racconta un aneddoto di anziane, di quando era bambino. Vive sulle rive dell’Amusa un mago, le donne ci vanno di nascosto. A un certo punto gira voce che, in una notte senza luna, il mago avesse imposto alle donne di portare molte fascine secche. Le avesse fatte spogliare nude, le avesse fatte saltare da una parte all’altra del fuoco (la signora che raccontava la storia diceva ridacchiando: “si abbuschiaru comu gghjiri”, si bruciarono come ghiri). Avendo i maschi della zona saputo del rituale andarono a trovare il mago. Fu trovato fatto a pezzi con la scure. 

Mimmo Cavallaro alle cascate del Niagara, durante una delle sue tournée nordamericane

Sono episodi che la maggior parte di chi ha vissuto un’infanzia borghese non può dire di aver ascoltato. Così come chiunque abbia studiato musica non l’ha potuta studiare in quel modo. L’infanzia musicale di Mimmo Cavallaro era fatta dai canti di lavoro della madre e del padre, come la ninnananna “Fighjiu figghjiu” e “Felicissimu boscu”, contadini, e dalla figura mitologica e perfettamente reale del nonno Pasquale Portaro, zampognaro, richiesto ad ogni riunione ed ogni festa del circondario. La mattina successiva agli incontri rituali e musicali il piccolo Mimmo si accorgeva del ritorno del nonno dal suono lontano della zampogna. Ma perché Pasquale arrivasse, finalmente, a casa, ci volevano ore e ore. I ritorni dei musicisti apprezzati, a cui venivano offerti molti bicchieri di vino, procedevano lenti, anche in base a sogni e visioni evocati da bordoni e canne della zampogna. È un paesaggio simbolico di cui possiamo cercare equivalenti nei racconti della gente di colore sui bordi del Mississippi, e pensando agli spirituals, agli hollers, al blues, poi entrati nella cultura giovanile attraverso il rock. Ed era un mondo in cui la musica serviva per tutto, per accompagnare il lavoro, i momenti di svago, i momenti di festa. L’amore. In cui, come racconta bene Platone nello Jone, la musica non valeva come discorso ma come atto magico fondante dei discorsi. Il musicista, prima che un intrattenitore, è uno sciamano che muove, a ritmo, una bacchetta magica. Ed è questo il codice genetico del gentiluomo che, dopo le prove, ti offre una lattuga dell’orto.

La band di Mimmo Cavallaro in tournée a Melbourne (da sx Angelo Sposato,
Valentina Donato, Gabriele Albanese, Mimmo Cavallaro,
Andrea Simonetta, Francesco Carioti, Silvio Ariotti).

Dai momenti della scuola media Cavallaro, che doveva alzarsi prima dell’alba e fare chilometri a piedi prima di arrivare alla strada del bus, ha scoperto la chitarra, strumento che a rigore non appartiene pienamente alla tradizione. E la musica pop, e il rock. Cavallaro è stato chitarrista con Le Luci Lunari, la System Orchestra 2000, gli Alfa Time, negli anni 70-80, il momento di risveglio di una regione fuori dalle coordinate della musica, ma con una grande fame di vita e di avventura. È stato bassista con i Cavalieri dell’epoca. In breve tutto l’apprendistato di gruppi e gruppetti di chi allora si cimentava con il pop. All’inizio degli anni ’90 la virata “popolare” con i Kaulonia Tarantella social club, insieme a Fabio Macagnino, Daniele ed Eliseo Mangiola. A cui seguirono i Folìa (di cui faceva parte anche chi scrive), che è stato un gruppo seminale per la rilettura popolare con strumenti elettrici, un modo di viaggiare con la tradizione come in un laboratorio alchemico di forme inconsuete per la solita struttura rock fatta di basso, chitarra, e batteria. 

Ecco un altro punto che caratterizza bene la figura di Cavallaro, e che lo rende molto distante da quella del purista e del filologo della musica popolare. Cavallaro non ha preclusioni stilistiche: per lui un organetto funziona esattamente come una chitarra distorta e una batteria. Non c’è nostalgia di suoni antichi, esecuzioni antiche, mondi antichi da rievocare. In Cavallaro non c’è nostalgia, ci sono solo suoni, belli o brutti. Ma prima di tutto c’è musica.

E il resto è storia relativamente recente, e più nota. I Tarankhan, con Fabio Macagnino alle percussioni, Stefano Simonetta al basso e Francesco Loccisano alla chitarra battente, sono stati una fucina di musicisti, autori, sperimentatori di una scena musicale unica in Italia. Così come i Karacolu fool e successivamente i Sonu divinu con Cosimo Papandrea, Carmelo Scarfò e Andrea Simonetta. E successivamente i Mimmo Cavallaro Taranproject che nella formazione iniziale era composto da Carmelo Scarfò  al basso elettrico, Alfredo Verdini alle percussioni e tamburelli, Francesco Loccisano alla chitarra battente. Successivamente si sono aggiunti al progetto Andrea Simonetta, Cosimo Papandrea, Gabriele albanese e Giovanna Scarfò. Quello è stato il vero punto di svolta per Cavallaro, che è diventato la star della musica calabrese in Calabria e non solo. Fino all’ultima incarnazione del suo gruppo, composto da Andrea Simonetta (chitarra classica), Gabriele Albanese (pipita, lira calabrese, zampogna eccetera), Silvio Ariotta (basso), Francesco Carioti (tamburelli e percussioni), Valentina Donato (organetto, tamburello e danza).

Cavallaro intervistato da Roberto Messina
al Castello di Malvito (Cs, agsto 2019) per l’evento di Vincenzo Cipolla e Giovanni Cristofalo

E siamo tornati al Mimmo Cavallaro star locale, al fatto che (nell’era pre-covid, ma torneranno tempi migliori) abbiamo uno dei pochi esempi di musicisti calabresi che rispondono a quella voglia di rispecchiamento, di identità, fondamentale per qualsiasi società e qualsiasi cultura. Ma restano da aggiungere un paio di cose. La prima, e la più eclatante, è che Cavallaro, dalla maturità artistica in poi, ha sempre fatto la musica che voleva fare. Ha avuto successo, e va bene; ma se non l’avesse avuto avrebbe fatto esattamente la stessa cosa, probabilmente con gli stessi musicisti: chi ha davvero un “dentro” può tranquillamente evitare di rivolgersi a un “fuori”, chi suona per necessità, appartenendo alla razza di musicanti/sciamani di cui parlavamo, non ha neppure gran bisogno di successo, al massimo di riconoscimento. E per quello basta già una persona.

L’altra cosa la scrivo avendo avuto, e avendo ancora, l’onore di collaborare con Cavallaro. Basta inviargli un provino, con un abbozzo di linea melodica, e Cavallaro lo ascolta, ci lavora, risponde con una linea melodica della voce completamente diversa da quella pensata dall’autore.

Nella musica, come nell’arte in generale, conta solo esprimere la propria personalità. Il resto sono chiacchiere, e Cavallaro, si sarà notato dalle righe scritte in precedenza, è uno che non chiacchiera. Non parla molto, e non parla molto di musica. Fa. Per il resto meglio parlare, da gentleman, dei prodotti dell’orto. Tra le colonne di luce di un pomeriggio di mezza estate.

All right reserved /Riproduzione vietata) – Foto Mikos Cutrupi e archivio Mimmo Cavallaro