
17 Apr ZAPPINO, L’ESTRO E LA GRAZIA
Incontro col grande scultore di Zungri (Vv), allievo di Francesco Messina, dopo le sue recenti mostre al Castello di Cavernago e alla Minotauro Fine Art Gallery di Palazzolo sull’Oglio
di Antonio Falbo
Conosco da anni Michele Zappino, artista poliedrico, già docente di Scultura e tecniche dì fonderia presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, uno degli ultimi esponenti della vera, grande tradizione scultorea d’eccellenza mondiale, e senza tema di smentita, uno dei più grandi ritrattisti viventi. Da tempo frequento il suo atelier ed ho assistito alla metamorfosi intervenuta nel suo lavoro. Negli anni, la sua scultura ha raggiunto esiti di sintesi che hanno permesso al suo tocco di perdere quella eccessiva levigatezza e precisione tipica della maniera accademica, con una produzione divisibile in due filoni sostanziale: quello delle opere eseguite su commissione, e quello più variegato e ricco di suggestioni virtuosistiche, dove trova subito e senza incertezze, la sua vera identità.
Una stretta viuzza mi conduce verso un cortile dove, su di un lato appeso al muro, una grande scultura a bassorilievo e stiacciato, mi sorprende per il divenire emotivo nel movimento plastico e intenso delle figure in successione, riproduce una versione del portale del Duomo di Mileto. Varco la soglia della sua casa di Zungri, provincia di Vibo Valentia, e mi accoglie un suo collaboratore. Entro in una sala molto luminosa in cui vedo appoggiate, qua e là, terrecotte e gessi. In terra, disposta in penombra, mi attrae in particolare una grande scultura di nudo disteso, ricavata da un grosso tronco di cirmolo, possente quanto un “Maillol” della migliore tradizione.
Dopo alcuni minuti Michele, con la sua solita rumorosa giovialità, in segno di saluto, mi viene incontro: agitando le mani, intrise ancora della terra molliccia che stava manipolando. Poi, dopo aver fatto una bella chiacchierata, mi conduce verso lo studio. Su di un trespolo, nella semi ombra, scopro che stava modellando il ritratto di un personaggio. La linea precisa dei contorni del viso lascia emergere la sicurezza e la disinvoltura dell’artista: che riesce a fissare nella terra inerte, la naturalezza della posa e la spessore psicologico. L’estro e la grazia si manifestano nell’equilibrio calmo e misurato dei tratti intensi di una fanciulla. Per Zappino le pose non devono essere rigide e lunghe, ma fugaci, per dialogare col soggetto, coglierne il più intimo carattere. La stessa intuizione che ebbe Gianlorenzo Bernini, quando fece ridestare di soprassalto la sua amata Costanza Bonarelli per ritrarla nella sua più intima e naturale bellezza. Nei ritratti la caratterizzazione dei tratti somatici della figura umana, in pochi minuti di studio. Bastano alcuni dettagli, che possono apparire a noi casuali, per far raggiungere a Zappino, con estremo garbo, l’intuizione psicologica.
Il maestro non fa mistero di puntare al coinvolgimento emotivo dello spettatore, scavando nella psiche più intima della persona da rappresentare. Una scultura mobile e vibrante, con cui compenetra ogni parte della massa plastica con la sicurezza di chi non conosce neppure l’ombra di un pentimento.
Lo scultore lascia riemergere la memoria della grazia soprattutto nel tema della danza. L’armonia dei gesti assunta dalle sue ballerine, è tale che sembrano spiccare il volo. L’abilità della mano scandisce un linguaggio tanto articolato che sembra liberare la materia amorfa e esaltarne la forma. E lo spettatore ne resta colpito e avverte tutta la bellezza dell’opera.
Ma non solo le ballerine attraggono l’occhio e il cuore: affascina, al centro della sala, lo scatto del suo “Varenne”, l’audace quanto monumentale cavallo in bronzo. Il superbo esemplare realizzato nel modellato sciolto, in ritmi bilanciati tra la verticalità e la consonanza orizzontale, sembra avvolto nel vento. Certi passi dello stile di Zappino sono ineseguibili se non si possiede il mestiere, cioè quello che si conquista solo con i sacrifici di anni e anni. Egli non ha nessun timore a confessare d’essere partito, nella sua carriera, dai toni più umili e bassi. Infatti il suo percorso comincia proprio con l’apprendistato con il maestro Francesco Messina negli anni Sessanta, col tempo che lo ha reso sempre più unico per la sua estrema naturalezza nel complesso rituale plastico, soprattutto nel taglio diretto del marmo di Carrara, dove raggiunge il suo ineguagliabile climax espressivo sfruttando a fondo le sue proprietà ed esaltando venature e trasparenze.
La subbia, lo scalpello, la raspa, smorzano gli angoli duri e spigolosi in modo da creare una progressiva smussatura delle masse fino a che gradualmente emergono forme embrionali. L’artista, come nell’ultima fase creativa di Michelangelo, scolpisce e modella con la tecnica del non finito intenzionale: egli lascia alcune parti grezze, appena sbozzate, in modo da rendere plasticamente intenso e offrire alla percezione dello spettatore l’attimo fuggente dell’azione o anche la tensione emotiva.
Recentemente si è potuto cogliere lo sviluppo di tale sua preziosa ricerca estetica e formale nelle sculture monumentali disseminate nel cortile d’onore del castello di Cavernago per una sua superba mostra di ben calibrato realismo in cui queste dilatano e pulsano di un fremito arcano di bellezza. Nello slancio sinuoso dei corpi, accovacciati o stilizzati, si generano ritmi compositi variati dal gioco dei pieni e dei vuoti. Essi si incurvano e sembrano librare, a spirale, in moti lenti e voluttuosi che donano all’insieme una modernissima impostazione pluridirezionale. La sua arte è come per Aristotele, una sinfonia in cui “la rappresentazione artistica importa una trasfigurazione della realtà, uno sforzo per cogliervi qualche cosa che sfugge alla superficiale osservazione”. Una serie infinita di accordi sempre in crescendo.
L’artista non si sente costretto dai materiali, anzi egli si avvale di blocchi di marmo, di pietra, magari di recupero a cui imprime energia. Eppure è alieno da discussioni teoretiche, è nemico di qualsiasi impostazione critica ed estetica. Non vuole, per sua scelta, essere partecipe da effimere mode stilistiche. Tuttavia non soffoca l’ispirazione della grande tradizione scultorea e attua attraverso l’osservazione della realtà umana la rappresentazione del valore delle passioni.
Così è nell’immagine inquietante e suggestiva del grande bronzo del “Cristo in croce”, un’opera voluta fortemente in questa mostra con la dolce figura di Cristo disposta con la testa reclinata, avvolta in una religiosità intima intrisa di metafore sacre. Risolta con magistrale tecnica formale ed esecutiva, orientata stilisticamente verso un linguaggio umile e feriale privo di ufficialità, fa parte del repertorio delle opere di arte sacra su commissione, che l’artista è stato spesso chiamato ad eseguire. Il percorso creativo di Zappino si è compiuto con la seconda esposizione presso la Minotauro Fine Art Gallery di Palazzolo, dove ancora estro e grazia si sono completate nelle evoluzioni dei passi di danza delle sue ballerine, esili sculture quanto mai ricercate.
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