UN SIGNOR RAGU’

Lo stufato di carne in salsa di pomodoro, in Calabria un vero trionfo di tradizione e gusto 

di Annita Ferragina

Leonida Repaci, il grande scrittore palmese, nella sua celebre ode alla Calabria racconta che Dio, creando il mondo e la terra, promise a sé stesso di fare il proprio particolare capolavoro, modellando la Calabria. Ad ogni parte di questo territorio, donò poi una specifica ricchezza agroalimentare: al mare di Reggio Calabria, il pesce spada; all’Aspromonte l’ulivo; a Pizzo Calabro il tonno. E poi distribuì un alimento speciale per ogni mese dell’anno.

Questa premessa, per dire di cosa mi accingo a parlare, da cuoca con passione per scrittura e lettura, nonché da orgogliosa “terrona” nata a Catanzaro e dimorante nel territorio di Simeri Crichi: un piccolo paese con una grande varietà di habitat naturali, che permette di godere del mare azzurro e cristallino, con la più bella e inebriante collina puntellata di zagare disseminate tra mandorli, ciliegi, aranci e ulivi secolari.

Devo considerare che la cucina mi ha attratta, accolta e coinvolta, sin da piccola. Indelebile è il ricordo di tante domeniche incantate, sospese, idilliache, passate ad osservare le donne di casa, ed in particolare le nonne, intente alla preparazione di amabili conviviali illuminate da tovagliati bianchi e profumati. A mia madre, grande maestra, dedita alla decorazione, devo la passione per i dettagli, perché è decisamente vero, come mi ripete ancora oggi, che: “anche l’occhio vuole la sua parte e tutto deve essere speciale”. La tavola deve risultare un piacere, come il buon cibo poggiato sopra. Pertanto, merita medesima cura.

Un mio flashback “psicoalimentare” ricorrente? La casa invasa dal profumo della sarsa: la passata di pomodoro all’antica, con questo ingrediente fresco, da trasformare in conserva. Una pratica complessa, ma coinvolgente, e per noi piccoli, pure divertente, che si materializzava attraverso un’organizzazione precisa e solo apparentemente semplice, nei mesi roventi di luglio e agosto, con l’intera famiglia “allargata” messa al lavoro. Nella sua pratica domenicale, questa “festa” veniva arricchita con la preparazione di carne di maiale: salsiccia, gamboncello, l’onnipresente olio exravergine di oliva, la cipolla rossa di Tropea, il peperoncino, l’alloro e il basilico. La salsa fatta accuratamente pippiare (cioè cuocere sbuffando, come fa una pipa, con cottura lunga e lentissima). Il bouquet di odori diffuso dappertutto, negli ambienti e nei cuori. E la gola, ultima delle dimore di un gradimento iniziato con l’inzuppo di una fetta di pane casareccio direttamente nella “tiana” (il tegame) di terracotta, accompagnato da un bicchiere del buon rosso di casa.

Un regime alimentare senza pomodori, in Calabria, riesce difficile immaginarlo, dal momento che crudi, cotti, essiccati, salati, freschi o conservati, hanno sempre avuto ruolo dominante sulle nostre tavole. La regione vanta soprattutto quelli di Belmonte: carnosi, polposi, saporitissimi, fantastici, dai toni cromatici più variegati che vanno dal verde, al giallo, al viola. Ma pure quelli di Pizzo e Sibari, molto indicati per le conserve: tondi, a cuore, a ciliegia, oblunghi, schiacciati, variano di forma, colore, sapore. Il piacere di servirli, non si limita al gusto e alla vista: si estende all’odorato e al tatto, passa dal frutto alla pianta. Sfregare pollice e indice sul picciolo o sulle foglie, portandoli alle narici, restituisce un sogno, recupera una dimensione agreste del tempo che torna, restaura, o mantiene il rapporto uomo-terra, fatto di solchi che si aprono per assorbire l’acqua deviata alternativamente dal contadino a bagnare le radici arse dal sole.

Il rito

La preparazione della conserva di pomodoro, in Calabria assume ancora oggi i connotati di un vero e proprio rito, una tradizione familiare che si tramanda di generazione in generazione. Intere famiglie, all’alba di un preciso giorno d’estate, si ritrovano sincronicamente come per un culto atavico, un cerimoniale religioso, con nonni, zii, figli, nipoti… una brigata nella quale ognuno trova un ruolo specifico e preciso. Le cassette accatastate, colme di pomodoro, sono le vere protagoniste della scenografia in un anfiteatro di sedie in cui tutti prendono posto, “armati” di coltelli, ciotole, scolapasta e canovacci.

Ci sono gli addetti al lavaggio (che è intenso e selettivo). Quelli che tolgono il peduncolo. Quelli che tagliano e controllano l’integrità del prezioso ortaggio facendo ben attenzione ad eliminare il non edibile (parti verdi, eventuali difetti naturali del pomodoro, ecc.). Quelli che preparano la bombola del gas con annesso fornellone sul quale a caddàra (il pentolone) accoglierà i pomodori da cuocere, il lungo cucchiaione di legno, il passapomodoro elettrico, il fusto pulito nel quale bolliranno le bottiglie nuove o riciclate (lavate con rigore e messe a scolare) nelle quali i selezionatori di basilico (di norma i più piccoli) inseriscono le foglie verdi e integre, i tappi, rigorosamente nuovi, ed il tappabottiglie (affidato solitamente al palestrato di casa).

Cenni storici

Pare nativo dell’America centrale e del Sudamerica, più propriamente del Messico (con la salsa, già parte integrante della cucina azteca), dalle varie proprietà benefiche e afrodisiache, arrivato in Europa intorno al 1500 al seguito della ciurma di Cortés, ben impiantatosi in particolare dell’area di Nocera e di Sorrento, non si ha notizia del preparato di salsa prima degli inizi dell’Ottocento. La produzione industriale, con Francesco Cirio, ha grande successo a Torino a partire dal 1856, con le prime conserve alimentari, e dopo una ventina d’anni con la grande fabbrica di conserva di pomodoro. Un’invenzione che spinge spiriti innovatori a produrne sempre maggiori quantità, e soprattutto a renderlo disponibile lungo l’intero arco dell’anno.

Sulle origini del ragù, varie teorie ne attribuiscono intanto l’invenzione ad un cuoco bolognese al servizio di Luigi XIV di Francia, autore di uno spezzatino di carne forse più simile al ragù napoletano. Certamente, un piatto per ricchi e nobili, con questo alimento all’epoca esclusività per benestanti. Al popolo, invece, la “virtù” della cottura lenta, a buon fine di esigenze domestiche ed economiche, con le carni cotte in pentola a mantenere i succhi nutritivi trattenuti dai liquidi, con tutto il corollario di profumi, colori, sapori. Un dato storico documentato fa riferimento al ventennio fascista, quando sulla scia del nazionalismo imperante, si impose a questa pietanza si impose il nome italianissimo di ragutto al posto del francesizzante ragù…

La ricetta del ragù misto alla calabrese

Ingredienti:
500g. di muscolo di vitella

500g. di maiale dalla parte del prosciutto

1 pezzo di pancetta con la cotenna

1/2kg di costata di vitella e di maiale con l’osso

1 grossa fetta di capocollo (o salsiccia piccante)

Olio extravergine d’oliva

1 peperoncino 

2 cipolle di tropea

2 spicchi di aglio (da eliminare dopo la rosolatura)

1/2 bicchiere di vino

2 bottiglie di passata di pomodoro

Alloro

Basilico fresco

Preparazione:
Tagliate la carne e la pancetta a pezzi non molto piccoli, prendete la salsiccia intera e metteteli in un tegame capiente, a bordi alti.

Aggiungete quattro cucchiai d’olio, rosolate la carne, bucate la salsiccia e quindi versatevi il vino, coprite con il coperchio per qualche minuto e poi lasciate evaporare a pentola scoperta.

Affettate la cipolla a piccoli pezzettini, pulite gli agli e aggiungeteli alla carne.
Fate insaporire con gli odori di alloro e basilico, versatevi la passata di pomodoro con la lavata delle bottiglie.

Salate, mettete il peperoncino intero e fate sobbollire a fuoco basso, fino a quando la carne non si presenterà tenera alla forchetta.

A cottura ultimata, levate la carne e ponetela al caldo in un piatto da portata.

Il sugo della carne, serve per condire la pasta, in particolare le scilatelle o fileja fatte in casa, tipiche per questo sugo, ma è altrettanto buona con rigatoni o penne.