
04 Lug Un romanzo di “guarigione” nel deserto dell’Egitto
Nel nuovo libro del calabrese Felice Iracà, Dirigente Vicario dei Vigili del Fuoco di Milano dopo il Comando a Verbania, un avvincente intreccio ambientato nell’oasi di Siwa tra terreno e trascendente
di Roberto Messina
E’ sera quando lo incontriamo, sull’elegante e quieto lungolago di Verbania costellato di hotel e superbe ville liberty con giardini spettacolari e piante gigantesche, che tanto gli ricorda il lungomare della sua Reggio, le origini catanzaresi (è nato nel capoluogo calabro nel 1969) e i suoi valori, quella “calabresità” che da sempre porta dentro con orgoglio. E che diviene palese, se si pensa alla sua storia, una delle tante che raccontano il successo di chi crede che “si raccoglie solo se si semina bene.”

Dopo la laurea in Ingegneria Civile, conseguita a Reggio Calabria, Felice Iracà supera un concorso ed entra nel Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, con destinazione appunto Verbania sul lago Maggiore. Qui, continua a coltivare la sua grande passione – “una necessità esistenziale”, la definisce lui – collaborando con il settimanale “Eco Risveglio” e scrivendo tre libri: “Le campane di San Leonardo – Storia dei Civici Pompieri e della lotta al fuoco delle città di Intra e Pallanza” nel 2005, “Io ce l’ho un’anima – Dieci storie di quotidiana anormalità” nel 2006 e “Dove finisce il mare” nel 2016. Dopo un’esperienza di lavoro al Viminale nel 2013, viene nominato Dirigente e svolge le funzioni di Comandante Provinciale dei VV.F. del Verbano Cusio Ossola dal 2015 al 2020, prima di essere assegnato al Comando di Milano, dove attualmente ricopre l’incarico di Dirigente Vicario.
E attorno a una pizza, immancabilmente piccante, Felice ci racconta del suo ultimo romanzo, “Io guarisco”, disponibile in libreria dal prossimo autunno, e già preordinabile sul sito della casa editrice Scatole Parlanti (https://www.scatoleparlanti.it/prodotto/preordine-io-guarisco/).
Allora com’è nata l’idea di questo nuovo libro?

Credo covasse dentro da tempo, ne ho custodito per anni gli odori, i sapori e l’energia, quelli di un posto magico, un luogo fuori dal mondo agiato e ordinario del quotidiano, visitato tanti anni fa con la mia famiglia in Egitto: l’oasi di Siwa, un piccolo polmone verde scampato all’immensa aridità del deserto…
Che cosa ti ha impressionato di quel posto, a tal punto da ambientarci una storia?
La forza della vita, prima di tutto: per arrivare a Siwa fai più di 300 km in mezzo al deserto più assoluto. Tutto è arido, tutto sa di morte, per almeno quattro ore di viaggio. Poi, all’improvviso, ti si schiude la vita: una distesa infinita di palme verdi, un grande lago salato, il baccano, il sorriso e la magia della gente. Poverissima, ma felice. Ecco, da sempre la leggo come una metafora a cui credo fortemente: è la vita che vince sulla morte. E’ il bene che ha la meglio sul male. Anche quando sembra il contrario.
Quali sono i temi portanti del tuo romanzo?
Il testo ruota attorno a un tema forte: la guarigione. Sì, lo definirei proprio un romanzo di guarigione. E la pandemia ha contribuito non poco alla sua gestazione.
In che senso?

Durante questo terribile anno, chi più chi meno, ci siamo chiesti se saremmo davvero guariti. Ovvero se avremmo vinto per sempre questa battaglia contro il virus. Questo mi ha dato modo di riflettere, ancor di più. E allora ho sentito che c’era bisogno di un messaggio di speranza, e di guarigione, in senso lato. Perché sono tante le guarigioni a cui tutti aneliamo nel corso delle nostre esistenze: quella dai mali fisici, quella dai demoni interiori e quella dai tiranni, che imperversano mascherati anche alle nostre latitudini democratiche, tutte lotte che si trovano ad affrontare i personaggi del romanzo.
Alcuni personaggi mostrano tratti tipicamente calabresi… Raccontaci di più.
La caparbietà e la determinazione sono i tratti salienti del giovane Amir, personaggio inizialmente pigro e dormiente, quando viene accusato di un amore clandestino, che la legge del luogo non ammette. Il ricorso a cure magiche, per lenire i mali che attanagliano gli abitanti del villaggio, che un’anziana Santona e la sua giovane allieva esercitano attraverso il calore degli occhi e quello delle mani, che tanto mi ricordano i riti con i quali le nostre nonne scacciavano il malocchio. E il senso di comunità, quello stringersi forte in un’unica grande ideale famiglia di fronte alle terribili sfide che gli abitanti devono affrontare, che è tipico del nostro essere calabresi, del nostro stare insieme, sempre e comunque.
Accanto a personaggi che possiamo definire “terreni”, nel tuo libro altri spiccano per doti e qualità del tutto trascendenti.
La storia volge al meglio perché questi personaggi si alleano, seppur inconsapevolmente. C’è chi ha capacità visionarie e ultraterrene, attingendo a risorse intangibili – è il caso dell’anziana Santona venuta da lontano a dorso di un cammello e della giovane Sharifa – e chi invece resiste alle avversità facendo ricorso alla forza, come fanno Amir e gli inglesi, quei cercatori d’oro nero nei quali il giovane si imbatte per caso nel deserto.

L’anziana Santona venuta da lontano, di nome Anna Maria Rosita Dominguez: è lei la chiave di volta della storia…
Sicuramente ne è il perno, colei che scardina un sistema ingessato e incapace di riconoscere qualsiasi elemento di novità, e di libertà. E’ lei che proibisce definitivamente l’infibulazione, subita da sempre in silenzio fino al suo arrivo. Alla veneranda età di settant’anni, è alla sua ultima missione: quella di salvare Sharifa dai fantasmi dell’infanzia, e liberare il popolo dal tiranno, oltre che da una carestia imperante. Perché, come dice al padre prendendolo per il bavero quand’era ancora giovane, “non è la morte che temo, ma l’ignoranza dell’uomo.”
E poi c’è il cattivo di turno…
Il Vecchio Wambua, il capo incontrastato del villaggio, che tiene sotto scacco gli abitanti indossando una maschera di circostanza che nessuno vede, o ha il coraggio di voler vedere. Tranne Amir, quando si accorge dell’inganno che, da troppo tempo ormai, va avanti con la complicità del governo. E che non riesce più a tollerare. Ma quanti sono i Wambua che ogni giorno sopportiamo in silenzio? Penso ai padri autoritari, ai padroni cui tutto si deve per un misero salario, e ai tanti tiranni mascherati della nostra società apparentemente equa e solidale.
C’è un messaggio di fondo del libro che ti piacerebbe far emergere?
La necessità di staccarsi da terra, direi. La capacità di andare oltre, di credere a qualcosa che non si può toccare né spiegare, qualcosa di sovrannaturale. Qualcosa che va oltre le leggi della fisica che conosciamo da sempre. Non a caso Sharifa, durante un esperimento di levitazione, afferma che “la gravità è una bugia.”
Puoi dirci meglio?
Quella forza oscura con cui tutti conviviamo e che tutti subiamo, come innata costrizione, ci impedisce di essere davvero liberi. Non ce ne accorgiamo, ma siamo spesso e troppo “ancorati a terra”. E allora, in senso del tutto metaforico, quante sono le gravità quotidiane che ci rendono schiavi al suolo? Quanti sono i nostri cliché, gli stereotipi, i pregiudizi e le convenzioni che ci imprigionano esattamente quanto la forza galileiana? Sharifa questo lo capisce, e la levitazione è solo un modo apparente per scrollarsi i suoi demoni interiori: è grazie all’anziana Santona, se la ragazza inizia a parlare, dopo anni e anni di totale mutismo.
La pizza (buona) è finita, e un altrettanto ottimo e celebre amaro della nostra Calabria conclude la serata. Ci congediamo da Felice Iracà con alcune idee in testa e qualche progetto culturale da fare in futuro assieme, in attesa di approfondire il libro che si annuncia animato e originale, proprio come l’autore, e i suoi pensieri. Perché adesso ne siamo certi anche noi: la gravità è una bugia. O no?
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