RE ARTU’ ORIGINARIO DELL’ASPROMONTE? PIU’ DI UNA SEMPLICE IPOTESI…

La straordinaria possibilità, avvalorata da una lunga serie di testi, contesti, toponimi, riferimenti, fatti e coincidenze storiche, leggende e miti, affinità stilistiche e architettoniche (come quelle tra l’abbazia di San Galgano e quella della Matina di San Marco Argentano) e da uno …strumento musicale.

di Giuseppe Pisano

Cominciamo col dire che la Calabria fu detta Britannia e Brettia, da Bretto figlio di Ercole capostipite anche dei Britanni e di Re Artù. E che il primo Artù rintracciabile in Britannia è tale Lucius Artorius Castus, funzionario romano la cui esistenza è documentata da un’iscrizione funeraria bretone, chiamato in soccorso dal re dei Bretoni, Vortigern, per bloccare l’invasione dei Sassoni. C’è poi da aggiungere che la X Legio Fretensis (legione romana composta da reclute calabresi) venne schierata a Gerusalemme in epoca di Ponzio Pilato e poi anche in Gallia e in Britannia prima con Cesare e poi sotto Vespasiano e Gallieno.

Lucius Castus potrebbe essere stato, dunque, un militare romano di origini calabresi, non solo perché soldati greci della X Legio occuparono la Britannia rimanendovi di stanza, ma anche perché, secondo la tradizione celtico-nordica, capostipite di re Artù sarebbe, come per i “Bretti” calabresi, quel Bretto figlio di Ercole giunto in Britannia da Troia dopo la distruzione. E ancora forse non a caso la leggenda di re Artù e della Fata Morgana fu localizzata dagli anglo-normanni in un imprecisato “Regno di Locri” e poi contestualmente nell’area dello Stretto di Messina. La fata Morgana (la scozzese Modron) nella tradizione del Ciclo arturiano è la sorellastra di re Artù.

Ancora un fatto indicativo, stavolta “musicale”. I militari scozzesi appresero l’uso della zampogna dai legionari romani e questo strumento pastorale pare fosse meglio conosciuto come “ibicino”, inventato dal poeta e musico reggino Ibico. L’ibicino veniva usato al tempo di Cesare in Gallia dai legionari per andare in guerra ed è probabile che si tratti proprio della zampogna, dai Romani detta “tibia utricularis”. Secondo lo storico Procopio, questo strumento musicale veniva usato dai legionari romani perché ricordava loro la terra natia. E non si dimentichi poi che a Reggio, fondata dai calcidesi, era veneratissima Diana Fascelide ovvero “Scotia”.

Tutti conoscono la leggenda di mago Merlino, della Dea del Lago e di quel mondo magico. Dove finisce la fantasia e dove partirebbe la “storia” di re Artù? Nennio nella sua Historia Brittonum lo nomina senza indugio come Artù. In celtico la parola “arth”” significa “orso”. Nelle citazioni più antiche, Artù non viene definito re, ma dux bellorum (“signore delle guerre”) e il termine Dux riguarderebbe Artorio Casto.

Particolare del mosaico
della cattedrale di Otranto (Lecce)
raffigurante Re Artù a cavallo

Alcuni elementi caratteristici della leggenda arturiana, mai trovati in Gran Bretagna, saltano invece fuori nel Meridione d’Italia a far pensare che Artù fosse davvero italiano e non britannico. Italiano di dove? Parlando di Meridione, si sa, si parla più facilmente di Campania, Puglia, Sicilia… raramente di Calabria! Ma stavolta le cose sono nettamente a suo favore.

La figura di Re Artù, è vero, compare nel mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto, in Puglia, come un personaggio coronato a cavallo di una specie di capra “armato” solo di un bastone con il pomo a palla (una sommità sferica indicata dai più come uno scettro) ed accanto la scritta “Rex Artorius”. In origine questa figura di Artù era priva di corona, simbolo di regalità, elemento aggiunto a seguito di un restauro ottocentesco.

Tornando alla Calabria, nel Museo archeologico di Cirò Marina dovrebbe essere ancora esposta una placca rotonda di 75 millimetri circa, con una raffigurazione che rimanda ai Cavalieri della Tavola Rotonda. E’ risalente a IV secolo d.C. e raffigura la dea Ippona (al centro della scena) con ai suoi fianchi due cavalieri in groppa al loro cavallo. La dea Ippona (o Epona), figura della religione celtica passata poi alla religione romana, era la dea dei cavalli e dei cavalieri.

Nell’antichità la sapienza druidica veniva costantemente accostata all’insegnamento di Pitagora e alla sua scuola fondata a Crotone. Come scrisse Ippolito: “I Druidi dei Celti hanno studiato assiduamente la filosofia pitagorica… E i Celti ripongono fiducia nei loro Druidi come veggenti e come profeti poichè costoro possono predire certi avvenimenti grazie al calcolo e alla aritmetica dei Pitagorici”.

Non dimentichiamo che i Greci vissero assieme ai Celti, infatti Massilia (Marsiglia) fu un’antica colonia greca della Gallia e vi era un fecondo scambio commerciale e culturale. Anche la figura di Mago Merlino, maestro di Artù, è ispirata a un druido realmente vissuto.

Pietra Cappa (San Luca, Rc)

Qualcuno dice che la vera dimora di Artù fosse in Aspromonte, a Pietra Cappa, il monolite più alto d’Europa (ben 140 metri d’altezza) dove esistono numerose leggende legate a Gesù e al Graal, la simbolica coppa del sangue di Cristo. Questo immenso blocco granitico viene così nominato perché starebbe ad indicare una coppa rovesciata, cava al suo interno. E sempre in quella cosiddetta “Vallata delle Grandi Pietre” ci sarebbe anche una leggendaria conformazione arenaria denominata “Rocca del drago”, chiamata così per la somiglianza con la creatura in questione. Il nome del padre di Artù, Pen-dragon, significa letteralmente “testa di drago”, e il drago è associato ai simboli rappresentati sui suoi stendardi.

Megaliti a Nardodipace (Vibo Valentia)

Secondo alcuni ricercatori, però, i resti di tale favolosa residenza arturiana sarebbero più precisamente i misteriosi megaliti di Nardodipace, sulle Serre calabresi poco più a nord di Pietra Cappa, esattamente alle pendici meridionali del monte “Pietra Spada” (sarà un altro caso questo suo toponimo?). A Nardodipace ci sono strutture megalitiche disseminate in un’area di circa 20 chilometri quadrati, collocate anche nei boschi dei comuni confinanti di Serra San Bruno e Stilo, mura ciclopiche, tumuli di pilastri di roccia modellata costituiti da quarzo e granito simili strutturalmente ai megaliti inglesi.

Il prof. Alessando Guerricchio, ordinario di Geologia all’Università della Calabria, il primo ad avere affermato trattarsi di megaliti di natura antropica, ritiene che qualcuno dei siti possa celare nelle sue profondità delle tombe erette in onore di qualche principe o altra personalità. La particolarità di queste strutture è che si tratta di “triliti”, una forma che riscontriamo principalmente nel megalitismo bretone ed in particolare nella nota Stonehenge. A tal proposito sull’enciclopedia wikipedia, alla voce “Nardodipace” è riportato: “è il carattere celtico delle spirali, ma soprattutto la grafica runica a metterlo in evidente connessione con popolazioni scese da Nord, o perché no, giunte a Nord da Sud, e quindi con un percorso inverso, ma attenzione, le pietre di Nardodipace, come quelle di Stonehenge ‘parlano’ per così dire la stessa lingua, utilizzano il medesimo alfabeto fatto di rune e gli stessi simboli”.

Il professor Alberto Pozzi, della Centenaria Società archeologica comense, ha parlato di possibili monumenti o complessi celtico-bretoni. E sempre su Wikipedia si legge: “L’agglomerato che dà forma alla collina è infatti, più verosimilmente costituito dall’accostamento di diverse strutture circolari, sottostanti l’attuale manto erboso, simili a cumuli, di matrice anche quella celtica o legata alle strutture megalitiche britanniche, pertanto i megaliti, peraltro studiati dal dipartimento di Archeofisica dell’Università di Torino, risultano essere astronomicamente allineati proprio con il più famoso sito inglese”.

Ma c’è di più. Guerricchio ed altri studiosi hanno notato una rassomiglianza tra la disposizione planimetrica delle strutture megalitiche e ciclopiche dei territori di Nardodipace, Serra S. Bruno e Stilo, e la conformazione della costellazione di Boote. Ebbene, una teoria farebbe derivare il nome “Arthur” da “Arturo”, la stella più brillante nella costellazione Boote nei pressi dell’Orsa Maggiore, indicato come “il guardiano dell’orso” (che è il significato del nome in greco antico).

San Galgano (Chiusdino, Siena), la spada nella roccia

Ma spostiamoci altrove per tornare, poi, alla base. La leggenda di re Artù inizia con una mitica spada conficcata nella roccia. Se “la spada nella roccia” è una leggenda in Gran Bretannia, lo stesso non può dirsi in Italia perché nella Cappella di Montesiepi nei pressi di San Galgano, esattamente nel comune senese di Chiusdino, spunta da una roccia l’elsa di una spada (unica al mondo) che fu, secondo la tradizione, conficcata nel 1180 da un santo-guerriero: San Galgano. Curioso è che il nome Galgano richiama suggestivamente quello di Galvano, il più giovane dei cavalieri di Re Artù, e suo nipote. E ci sarebbero anche qui dei collegamenti con la Calabria…

Lo studioso Domenico Rotundo ha rilevato affinità costruttive (l’uso dei mattoni in cotto e non solo) tra l’abbazia di San Galgano (iniziata nel 1203) e l’abbazia della Matina a San Marco Argentano (eretta in forme cistercensi a partire dal 1185), il che fa pensare che i monaci di San Galgano provenissero dalla Matina. A tale riguardo Rotundo dice anche che: “la famosa croce di San Marco Argentano fu donata alla Cattedrale di quella città nei primi anni del 1300 dal vescovo Tommaso, già abate di S. Maria della Matina e proveniente da San Galgano”.

Le commessioni continuano… L’abbazia di San Galgano fu affiliata a Casamari dall’abate Giraldo (o Gerardo), già arcivescovo di Reggio Calabria e costruttore della Casamari cistercense (cui passarono poi le abbazie calabresi della Matina e della Sambucina), il quale fra il 1181 e il 1184 all’incirca inviò una colonia di monaci cistercensi che diedero inizio alla filiazione, appunto, di San Galgano. Inoltre il cavaliere eremita di Sant’Agostino, Galgano, in punto di morte ebbe l’assistenza dell’abate di Casamari e architetto Gerardo di Cosenza. Infine, da considerare come fiorente fu l’arte orafa delle prima citate abbazie calabresi (che avevano a disposizione le vicine miniere d’argento e di rame della Sila) e che l’arte orafa senese si originò nell’abbazia di San Galgano. Diverse croci in Calabria, tra cui quella di Amendolara, furono giudicate dai critici “di arte orafa senese”.

Abbazia di Santa Maria della Matina
(San Marco Argentano, Cosenza)

Si può dunque concludere che, come sottolinea anche Rotundo, fu dall’ambiente culturale della Calabria bizantina e normanna che l’Occidente apprese (o riapprese) tante leggende e miti. Ci sono perciò fondati motivi per ritenere che pure la leggenda del Graal, della fata Morgana e del primordiale re Artù sia stata rielaborata in Calabria, regione da diversi autori latini chiamata “Britannia”, per i motivi elencati. E forse è giusto anche pensare che quando nella leggenda è detto che Giuseppe d’Arimatea portò il Graal in Bretannia, per “Bretannia” bisognerebbe intendere principalmente la Calabria…