25 Ott Nunc est bibendum: un romanzo emozionante, tra le strade di Montegiordano
Scritto da Antonio De Prisco e Giuseppe Vivacqua per “Qui Edit”, è ambientato nel comune dell’Alto Ionio cosentino ad inizio degli anni ‘50
di Giuseppe Chiecchi (già Professore Ordinario di Letteratura italiana
presso l’Università degli Studi di Verona)
Verrebbe da dire: in principio era Manzoni, con il suo escamotage del “dilavato e graffiato autografo”, qui diventato un mucchio di fogli raccolti in un contenitore di cartone, parvente per un lembo al di sotto una vecchia e sgangherata madia. Analogo è pure il doppio fine dell’espediente: ridurre la responsabilità degli autori, trasformati in copisti, e oggettivare la rappresentazione degli eventi narrati mediante la rappresentazione del loro fortuito ritrovamento. Forse c’è da aggiungere un terzo scopo, poiché la giacenza trascurata dell’autografo e la casualità della sua scoperta sono indizi della fragilità dell’essere, sospeso con esile crine sul vuoto della dimenticanza.
Ma poi c’è dell’altro, poiché mediante un ingegnoso ingranaggio, gli autori di “Nunc est bibendum” (Qui Edit), Antonio e Giuseppe, rispettivamente “un anziano professore universitario che villeggiava a Montegiordano e un giovane ingegnere del posto” (p. 7), innestano se stessi in medias res, cioè nello svolgersi controcorrente di una linea genealogica rianimata dal ritrovamento.
Mimì è il nome che ci guida verso gli antenati e dagli antenati a un oltre materno e paterno sempre meno definibile, insomma verso l’origine dell’Io sia di Mimì protagonista del casuale ritrovamento, sia dell’Io di Mimì protagonista della storia, entrambi sussunti nell’identico flusso genealogico, entrambi salvati dalla morte per beneficio della scrittura e soddisfatti nel bisogno identitario che è di ogni uomo. Il nome nei luoghi antichi è essenziale e ha il valore dello specchio, la potenza dell’auto riconoscimento e della riflessione.
La storia concerne il nonno di Mimì più giovane, anch’egli a sua volta Mimì, come il nonno paterno, e di Maria sua madre vedova, afflitta da una cronica, debilitante, emicrania. Quel flusso genealogico prima evocato sembra essere giunto al capolinea, al punto cioè del suo esaurimento all’interno del rapporto madre-figlio, asfissiato in un presente senza via d’uscita, senza futuro.
La trama si diparte dalla malattia della madre e si svolge nel tempo breve dell’antivigilia di Natale, trascorsa da Mimì alla vana ricerca dei soldi necessari per procurare alla madre le medicine. Nella coincidenza del vagare serotino e notturno di Mimì si manifesta – mi sembra – l’originalità del racconto, che si svolge nel reticolo spaziale di Montegiordano, dunque nella topografia stretta del borgo, che tuttavia viene negata dalla oscurità gelida, cosicché a mostrarsi distintamente sono interni e personaggi, illuminati e isolati, per così dire, dalla luce fendente dell’occhio di bue e registrati nelle poche parole che ciascuno pronuncia e in qualche articolazione, in qualche movimento del corpo.
Ancora una volta il viaggio fornisce lo schema del racconto, ma ciò che si constata è la declinazione originale dello schema, dato che del viaggio di Mimì tra i vicoli di Montegiordano si conoscono soprattutto le stazioni, i punti in cui il moto si sospende e la conoscenza spaziale si fa cognizione ed esperienza interiore, umana ed esistenziale. Allora Montegiordano diventa corpus infirmum, sezionato nei sette sintomi della sua malattia morale, rilevati da un Mimì sempre respinto, eppure mai imputante, una sorta di Candide cosentino, speranzoso e rassegnato fino alla prostrazione.
Talvolta, nel bel mezzo della lettura si ha l’impressione di stare in un incubo, nel quale ogni sforzo non riesce a produrre movimento alcuno. Il tempo che manca prima della chiusura della farmacia progressivamente si riduce, fino a consumarsi nel fallimento ammorbando con i sensi di colpa la coscienza del figlio, che si sente inutile e isolato nell’angoscia che lo tormenta. Invece, a scongiurare l’esito negativo è il finale a sorpresa, il miracolo di Natale che può avvenire soltanto in un luogo che non è edenico, ma antico, dove la relazione tra gli uomini non è innocente, tuttavia determinata da rapporti riconoscibili e sprofondati nella memoria di ciascuno e di tutti.
C’è insomma una logica, una ratio nello svolgersi del finale fiabesco, paradossale, di un racconto, che però non è una fiaba e possiede anche le durezze della miseria: la sua temporalità decentrata opera uno spostamento del mondo di Mimì e di Maria da quello presente di ogni lettore. Dalla divergenza originano vari pensieri e diversi sentimenti: lo stupore per l’evento finale e un vago senso di malinconia, causata dalla sparizione del cronotopo nel quale il miracolo poteva ancora avvenire, con logica e spontanea naturalità.
C’è qualche pennellata folclorica, nella onomastica soprattutto, ma non solo. Forse si poteva insistere, perché pure la lingua è coinvolta sotto ogni aspetto nella trama e ci avrebbe potuto offrire ulteriori particolari sui vincoli di appartenenza, sui legami interni tra gli abitanti di Montegiordano nel tempo-altro del rigido inverno del 1952.
Lascio comunque ogni vezzo accademico-critico, compreso il diritto presunto di ‘covar le uova nel nido altrui’, per dire ad Antonio De Prisco: ben fatto! Altro modo migliore non c’è per ringraziare il borgo che lo ospita da tanti anni e per appartenervi a pieno titolo. Ciò vale naturalmente per Giuseppe Vivacqua, il suo giovane collega, che oltretutto porta il mio nome.
All rights reserved (Riproduzione riservata) – Foto, per gentile concessione Archivio Antonio De Prisco
La trama e gli autori
Nel tardo pomeriggio di una nevosa e gelida antivigilia di Natale del 1952, a Montegiordano Centro, piccolo borgo dell’Alto Ionio cosentino, un giovane ventenne, per risolvere un grave problema di famiglia, lo gira in lungo e in largo fin nel cuore della notte. Il dettagliato racconto della sua singolare esperienza svela al lettore la varia umanità che popolava questo paesino e la vita notturna che lo animava.
Antonio De Prisco Professore ordinario di Letteratura latina medievale ha insegnato presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II” e l’Università degli Studi di Verona. Con questo primo romanzo ha voluto sperimentare il passaggio dalla scrittura argomentativa a quella descrittiva, narrando una singolare vicenda che si svolge a Montegiordano, un piccolo paese dell’Alto Ionio cosentino, nei due giorni che precedono il Natale del 1952.
Giuseppe Vivacqua Ingegnere civile vive ed esercita la professione a Montegiordano, suo luogo di origine. Appassionato cultore del genere letterario del romanzo nelle sue varie articolazioni, è questa la sua prima esperienza come autore. Per l’amore che lo lega al natio loco, ha voluto che la sua opera prima raccontasse una storia risalente ai primi anni Cinquanta e che, almeno in parte, di Montegiordano rispecchiasse la vita reale di quegli anni.