MARIA PERROTTA, LE irresistibili RAGIONI DELLA grande MUSICA

Intervista a tutto campo alla pianista cosentina che ha conquistato la scena internazionale e di recente inciso le sublimi e temibili “Variazioni Goldberg” di Bach per la prestigiosa Decca. A Parigi per una brillante carriera, con grande attenzione all’estetica e all’esercizio metafisico e dialogico con i suoi amati autori, ha il cuore sempre a casa….

di Roberto Messina

Nella sua abitazione di Sartrouville, piccolo comune residenziale a ovest di Parigi, dove vive con il marito Lucio Prete, cantante al Théatre de l’Opéra e le due figlie Giuseppina (violoncellista), diciannove anni, e Vittoria, otto, ancora piccola ma sensibilissima alla musica, per Maria Perrotta, pianista cosentina, tra le più acclamate concertiste internazionali, la giornata corre senza soluzione di continuità tra lo studio e la riflessione sulle “ragioni” della sua carriera e della sua “poetica”, la dimensione psicologia e interiore della musica con i suoi misteriosi richiami,, il dialogo con i suoi amati autori.

Studi al Conservatorio di Cosenza, perfezionamento a Milano, Parigi, Roma, affermazioni in prestigiosi Concorsi, Maria ha conquistato in breve la scena con il suo virtuosismo intenso, la tecnica pulita, non esibita, ma posta al servizio di una “lettura” introspettiva, di una dimensione psicologica che “scava” a fondo nella partitura regalando la magia di una “conversazione” intima e personale con la pagina musicale, in un confiteor serrato, rigoroso e al tempo lirico e sognante.

Bach e Beethoven sono, almeno finora, i suoi fari, l’alfa e l’omega del suo mondo sonoro. Ma è con Bach e le superbe e temibili “Variazioni Goldberg”, croce e delizia dei pianisti più attrezzati e “spericolati”, che si è imposta definitivamente all’attenzione. La sua incisione, per la prestigiosa Decca, del capolavoro scritto dal sommo maestro di Bonn nel 1739, ha spopolato, ed è ritenuta una delle più incisive, dopo quella “mitica” e insuperabile di Glenn Gould, e per stare alle interpreti del gentil sesso, quella di Rosalyn Tureck.

Nelle “Goldberg” la Perrotta è un tripudio di tecnica, abilità, poesia. Ma anche di “linearità” e “verticalità” (sono suoi concetti) con cui affronta e risolve una scelta interpretativa tesa ad esaltare la componente “geometrica” e architettonica, numerica prima che romantica e sognante, dell’immensa composizione bachiana.
Sempre a proposito di “Goldberg”, ha fatto scalpore un suo concerto a Lugo di Romagna, con la signora Perrotta al nono mese di gravidanza e …ambulanza fuori dal teatro pronta a correre all’ospedale. Le “Variazioni” sono state suonate, tutte e 30 (30, 3×10, è il numero della pienezza e della perfezione) come al solito in splendore. Ed è stato un trionfo.

Gli anni di studio a Cosenza e in Italia, i suoi maestri, il rapporto con la terra natale, la sua “filosofia della musica”, il presente e il futuro: ecco l’intervista che Maria Perrotta ci ha concesso con grande pazienza, gentilezza e cordialità.

Cominciamo dal principio. Quando è cominciata la tua avventura di musicista?

E’ iniziata in famiglia, col mio papà, un eccezionale “amatore” e musicofilo, un geniale pedagogo. Ed è cominciata prestissimo, verso i tre anni. Un approccio all’insegna della spontaneità e del gioco, ma al contempo del rigore e della profondità. Un imprinting formidabile. Poi il Conservatorio di Cosenza, nella classe di Antonella Barbarossa. E successivamente Milano, nella classe di Edda Ponti. Poi Jacques Rouvier a Parigi, Scala e Petrusanskj a Imola, Roma con Perticaroli. Diverse masterclasses con Thioller e Burato. Un percorso ricco di incontri e di figure importanti.

E’ stata la tua, come si dice, una vocazione?

Quando ritorno con la memoria ai primi anni e alla ricerca delle sensazioni e del flusso che poi ha determinato il mio diventare musicista, mi perdo in ricordi molto complessi, pieni di sfaccettature. Perché, come racconto spesso, la mia percezione di bimba, forse molto “fantasiosa”, è che nell’incontro con la musica fosse scattato qualcosa di magico e misterioso. Suonando ho sperimentato immediatamente la sorprendente sensazione di entrare nel tempo e di dargli una forma, sospendendolo. Come meditare. Non è stato indolore. Posso dire che è una forma di vocazione, ma non propriamente una scelta.

In cosa sei impegnata adesso?

In questo periodo di sospensione, sto lavorando ad un programma Beethoven, che mi doveva vedere impegnata in alcuni concerti in Francia e in Italia. E si spera siano solo rimandati. Ho nel cassetto un progetto molto bello di collaborazione con un compositore italiano che amo molto, Marco Di Bari. Sono entusiasta all’idea di misurarmi con i linguaggi del nostro tempo. Ho accolto con particolare gioia l’idea di eseguire delle prime assolute, come la sonata di A. Giacometti, a me dedicata, e la sonata di Gabriele Cosmi.

Le Variazioni Goldberg di Bach incise per la Decca, un grande successo. Con quale spirito ti sei avvicinata all’esecuzione di questo temibile capolavoro?

Le ho in repertorio da tantissimo tempo. Ho iniziato a studiarle verso i miei 13 anni. Quindi mi sono avvicinata a quest’opera con una certa incoscienza e con grande entusiasmo. Ne avevo fatto la scoperta attraverso l’ascolto di Glenn Gould che mi ha letteralmente folgorato. La mia insegnante, con fiducia, mi propose di studiarle.

La lezione “pesante” di Glenn Gould con le Goldberg, in ogni caso un elemento imprescindibile per tutti. Che ne pensi?

Come ho già detto, l’ascolto della sua esecuzione è stato folgorante. Le sue due registrazioni sono diverse fra loro, ma entrambe hanno il dono di trasmettere il senso della perfezione, dell’oggettività: sono trasparenti, polifonicamente limpide. Gould ha avuto il ruolo storico di consegnare una lettura pianistica di Bach che si può definire pura, nel senso che fino ad allora Bach al pianoforte era stato facilmente romanticizzato, manipolato, trascritto… Tutte cose per me anche interessanti. E lui ha rotto il cristallo. Ha tolto i pesi. Ha scelto velocità estreme, cercando secondo me, atmosfere che fossero incontaminate da codici romantici. La lezione di Glenn Gould conta molto, perché è diventato un mito, e nell’immaginario collettivo si è creata un’associazione molto forte, fra lui e quest’opera.

Per molti, l’altro riferimento per le Goldberg, stavolta femminile, è la pianista e clavicembalista americana Rosalyn Tureck.

Ho avuto la fortuna di ascoltarla dal vivo al Teatro della Pergola di Firenze, proprio con le Goldberg. Un concerto davvero emozionante. Evidente il suo intento: la ricerca della più grande chiarezza polifonica e strutturale, con uno stile libero da effetti, direi sobrio e semplice. Con scelte di tempi equilibrati, mai spettacolari. Il suo uso dello staccato in Bach, tra l’altro, suggestionò molto lo stesso Gould, che ne fece un tratto caratteristico della sua tecnica e del suo timbro. Anche lei è stata un modello.

E dello stile di Martha Argerich?

Beh, Martha Argerich è un vulcano di energia e intuizione. La sua tecnica è il risultato di un meccanismo perfetto, che però appare totalmente spontaneo….

La Argerich allieva di Vincenzo Scaramuzza, caposcuola argentino di origini crotonesi con allievi, tra gli altri, la Argerich, De Raco, Castro, Gelber, Zadra.

La figura di Scaramuzza è di grandissimo orgoglio per noi calabresi. Un didatta che ha lasciato un’eredità immensa. E’ stato insegnante della Argerich, di Barenboim, di vari altri. Dalle testimonianze sappiamo che trattava gli aspetti tecnici con grande conoscenza dei meccanismi muscolari, ma pure con grande naturalezza e lavorando sempre direttamente sul contenuto musicale. Mi piace che una grande scuola pianistica come la sua affondi le radici nel sud Italia e nella mia Calabria.

Per te prima Bach, o Beethoven? E se sì, o no, perché?

Sono stati il mio pane quotidiano entrambi.

Cosa ti attira dell’uno e dell’altro, e cosa invece no?

Di entrambi la potenza della forma. Ci sono geni creatori, come appunto Bach e Beethoven, che agiscono ad un livello profondissimo della forma, in quella zona del linguaggio che stravolge le strutture e i meccanismi e quindi poi, di conseguenza, la percezione e il sentire. Di Bach, mi ha sempre attirato il senso di imperturbabilità e di interezza, e in Beethoven il senso potente ed energico della volontà.

Due aggettivi per Bach e due per Beethoven.

Bach, vitale e divino. Beethoven, umano e visionario. E visionari lo sono tutti i grandi geni.

E invece per Chopin?

Rivoluzionario e solitario.

E per Rachmaminov?

Trovo la sua musica molto ispirata, ma non è fra gli autori che mi interessano maggiormente per adesso. La sua scrittura è pianisticamente perfetta. Ma ho sempre privilegiato, rispetto alla sua musica, quella di altri russi, come Skriabin, Prokofiev e Sosthakovic.

Cosa vuol dire prestare attenzione alla “verticalità e unitarietà” della musica di Bach? Sono tue espressioni…

Bach è la sintesi perfetta di un momento storico. La sintesi di polifonia e di armonia. Nelle proprie scelte interpretative non si può non tener conto della verticalità per costruire i pilastri della struttura e creare un disegno più efficace possibile della polifonia. La musica di Bach è un intero. Bisognerebbe “vederla” tutta contemporaneamente, come fosse un quadro.

In Calabria, per potenziare questo settore, creare occupazione, generare formazione e acculturazione musicale, e magari anche “economia della cultura”, da cosa cominceresti, e per costruire cosa?

Si deve cominciare sempre dall’insegnamento. Avere voglia di insegnare e di trasmettere la gratuità della bellezza. Questo è il mezzo, ed anche il fine di tutto. E devo dire che io non so parlare molto di lavoro inteso come “occupazione”. Credo che spesso, tra l’altro, carichiamo i ragazzi e gli allievi troppo presto di obiettivi esterni. Si rischia di renderli schiavi di qualcosa. Il risultato più importante, è il gusto per quello che si fa, il desiderio. Detto ciò, penso si dovrebbero creare tante semplici realtà. Anche piccole, ma radicate nei luoghi. In questo senso, la quantità diventa qualità. E per creare occupazione e cultura musicale, sarebbe importante avere cori e orchestre attive nelle scuole per esempio. Ma anche amatoriali. Che diventano importanti palestre anche per chi, poi, vorrà diventare professionista.

Veniamo alla terra d’origine. Cosa pensi in cuor tuo della Calabria e dei calabresi?

Più che altro penso alla Calabria con grandissimo attaccamento. E la calabresità è un tratto di me che amo molto, anche se in fondo non so bene in che cosa consista. Mi affascina la forte capacità di sognare, mista al disincanto. Mi piace il senso della parola, cosi vissuta e cosi carica del mio dialetto… così sfacciata a volte, e così misteriosa al tempo stesso.

Cosa ti manca di più della tua terra?

L’essere a casa.

In cosa sei calabrese? E in cosa no?

Non so. Mia mamma è veneta, e quindi indubbiamente ci sono tratti di parte materna. Forse non sono calabrese in una forma di timidezza che ho. E’ un tratto di me che sento venire dalla cultura materno/veneta. Sono calabrese nel sentimento di attaccamento e nel senso nostalgico della vita. E nella testardaggine.

Cosenza… Ricordi? Rimpianti?

Ricordi tantissimi. Rimpianti cerco di non averne.

Com’è alla fine Parigi? Come ci si vive? La cultura è rispettata, ma è anche un po’ cara e “nordica”? Pregi e difetti, visti da una calabrese come te.

A Parigi si vive abbastanza bene, nonostante i problemi che pone una metropoli. Da tre anni, però, viviamo in periferia, in una casetta autonoma dove poter fare musica liberamente e godere di un po’ di tranquillità. La cultura è tenuta in gran considerazione certamente. Quel che mi ha sempre colpito positivamente, è la presenza capillare sul territorio e il gran numero di amatori adulti che studiano seriamente uno strumento senza farne necessariamente una professione. Come dire, non si protegge solo l’eccellenza. Sono presenti Conservatori in ogni quartiere, e si fanno piccole stagioni in piccole sale.

I tuoi musicisti preferiti.

Bach, Beethoven, Schubert, Sostakovich, Mahler. Sempre difficile scegliere. Più che altro sono i processi e le idee che mi affascinano, che collegano un musicista all’altro, e mi accompagnano in un cammino che attraversa tanti aspetti.

E gli interpreti di riferimento?

Cambiano nel tempo. Attrazioni che si rinnovano, si affievoliscono. Mutano. Tatiana Nikolaieva è una musicista che amo moltissimo. Pletnev, Radu Lupu, Murray Perahia, Martha Argerich, Pollini… Sokolov. Per citare solo dei pianisti.

E tra quelli calabresi del passato?

Fra i musicisti del passato calabresi che mi incuriosiscono, ci sono Longo e Rendano che fu pianista compositore sulla scia dei grandi pianisti romantici. Ma devo dire, non ho approfondito né l’uno né l’altro, per il momento.

Ha fatto scalpore un tuo concerto a Lugo di Romagna al nono mese di gravidanza. La musica, con le parole di Bettina Brentano von Arnim, “come calore materno che fa schiudere lo spirito dalla spoglia terrena”.. . Raccontaci.

E’ un ricordo bellissimo, magico. All’inizio mi sembrò eccessiva tutta l’attenzione data a questo concerto, visto che io stavo benissimo e non mi pareva un’impresa eroica. Poi mi resi conto che evidentemente la maternità forse non si associa così facilmente all’essere artista e alla carriera. Mi ha fatto quindi piacere parlarne e contribuire a dare un’immagine bella e positiva di una femminilità libera e capace di mettere insieme tanti aspetti della vita. E certo ci sta anche la von Arnim. Ho sempre vissuto con una sorta di romanticismo la mia esistenza, e quel momento è stato una bella sintesi di un’armonia alla quale ho aspirato e aspiro sempre.

Tuo marito cantante all’Opéra. Dicci qualcosa di più su lui e sulla vostra conoscenza.

Con mio marito, Lucio Prete, ci siamo conosciuti da ragazzi nella nostra città, Cosenza. Siamo cresciuti insieme si può dire, condividendo passioni e sogni. E molte cose che ora facciamo, hanno preso forma anche grazie ai confronti che abbiamo avuto fra noi. Abbiamo due figlie e le portiamo insieme a noi il più possibile durante i nostri impegni artistici, e questo è davvero bellissimo. La prima, ormai, è grande. Amiamo entrambi la liederistica e siamo felici di poter fare delle cose insieme.

Da quali passioni è animata Maria Perrotta?

In teoria tante, anche se sono molto pigra e non so mai organizzarmi e alla fine non faccio nulla con continuità (tranne suonare!). Ho grande passione per la letteratura e la filosofia. Per la parola, ecco. Sì, ho passione per la parola. Anche se ne temo sia il potere che il limite. Ho poi un amore per la radio che racconta. Mi interessa la meditazione.

Il posto più bello che hai visitato?

Difficile dirlo. Ma dicendo Venezia, non si sbaglia mai…Venezia lascia sempre senza fiato. E poi ci sono anche i posti più belli che non abbiamo visitato… Per esempio, ho una città cara, dove non sono stata, ma che sento appartenere ad un mio misterioso immaginario: Istanbul.

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