04 Dic LO SCULTORE Francesco Triglia in piazza a Milano, con il monumento ad Alberto Ascari
Originario di Reggio Calabria, attivo da tempo tra Milano e Venezia, è artista “che aspira all’ordine, alla durata, alla stabilità”. La sua è una scultura di grande spessore formale, dove la forma è sapientemente bloccata nella precisione; ma al tempo stesso è scompaginata, vivificata dalla ripartizione prospettica di marca futurista
di Roberto Messina
Una nuova, importante opera pubblica, per l’affermato scultore reggino (trapiantato a Milano) Francesco Triglia. Un bassorilievo di bronzo raffigurante una Ferrari 500 F2, che spunta da una curva di calcestruzzo avvolta nel bianco, tono del candore e dell’eternità. Il monumento celebra il grande pilota milanese Alberto Ascari, tuttora l’unico italiano ad aver conquistato due titoli mondiali di Formula 1. L’opera troverà spazio proprio nel largo che Milano gli ha dedicato tempo fa, vicino ai Navigli. L’omaggio ad Ascari, realizzato da Triglia e donato alla città dall’Automobile Club di Milano, con i lavori seguiti dall’ing. Carlo Paglietti, e sempre su idea di Triglia include anche due medaglioni, uno raffigurante il volto del celebre campione meneghino, l’altro il logo del sodalizio automobilistico locale.
“Si tratta di un’armoniosa sintesi – spiega l’artista – fra architettura e scultura: attraverso la sinuosa forma ellissoidale e ascensionale, si allude ad una simbolica curva, contesto ideale per la collocazione dell’auto e della folgorante esperienza di vita di Ascari”.
La scena di gara, emblematica nel restituire ai passanti il miglior ricordo di uno dei più valorosi cavalieri dello sport automobilistico, è anche una forma di risarcimento per tutti gli appassionati: soltanto due anni fa, infatti, nella lunga serie di furti di opere funerarie avvenuti al cimitero Monumentale di Milano, sparirono, tra gli altri, anche i busti di bronzo di Alberto Ascari e del padre, Antonio. Protagonisti in un mondo delle corse ammantato di leggenda, morirono entrambi trentasettenni, il padre nel Gran Premio di Francia del 1925 al volante di un’Alfa Romeo P2, il figlio trent’anni più tardi, a Monza, durante una sessione di prove.
Di Francesco Triglia, possono essere ammirate in regione Calabria due splendide opere realizzate negli scorsi anni per l’aeroporto di Lamezia Terme (“Mistica Dorica. La sirena”) e per il comune di Scilla (“Scilla”).
Nato nella città dello Stretto nel 1951, dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti, Triglia si è trasferito, trovando rapido, durevole e ampiamente meritato successo, tra la Milano di Brera e l’hinterland veneziano. Una sua ultima mostra a Firenze, patrocinata dal sindaco del capoluogo mediceo, si è svolta nella prestigiosa sede dell’Accademia delle Arti del Disegno, nella centralissima via Ricasoli, proprio accanto la Galleria dell’Accademia, dove i turisti si recano a frotte, in ogni giorno dell’anno, per ammirare le celebri ed “eterne” sculture di Michelangelo, con il “David” ed i “Prigioni” in testa.
Quelle di Triglia sono opere di grande suggestione e comunque – lo diciamo senza dubbi – di assoluta “perfezione”. Da sempre, sin dai suoi esordi, affascinato e rapito dal mito della statuaria greca, non ha fatto mistero di questa “priorità”: cioè di una straordinaria vocazione per il disegno e per il “particulare”. Una passione che ha finito per conferire alle sue opere un’insolita e magnifica compiutezza plastica. Una “purezza” di linee, di proporzioni e di forme, una precisione delle sagome, che la dice lunga sulla volontà di recuperare il “classico”, avendo egli giustamente conservato e preservato con pervicacia il suo “magnogrecismo”, la figliolanza jonica e calabra, la discendenza ellenica…
Triglia (i cui soggetti principali sono sirene, arcieri, cavalli, templi) si rifà infatti con costanza e convinzione alle radici mediterranee, escludendo però di fatto ogni banale ossequio alla mitologia del tradizionale o a quel patetico e affrettato recupero della forma (nella scultura, nella pittura, nel disegno) tipico di una generazione uscita da Accademie e Istituti in cui nessuno si è preoccupato di insegnare cose simili da decenni…
L’orgoglio di questo artista sta invece tutto nel suo mestiere. Nel tenere ferma la barra dell’anima, ma sapendo contemporaneamente gettare lo sguardo in profondità. Nell’inseguire convintamente, caparbiamente, entusiasticamente, un’idea estetica precisa, un’idea di bellezza: soprattutto quando tante opere d’avanguardia hanno finito – come sappiamo – per rivelarsi stereotipe, troppo dichiarate, gridate senza efficacia.
Non vuole essere però nemmeno, il suo, un completo ritorno all’ordine, diciamo una sorta di prevedibile “neoclassicismo”. Certo, egli ridà senso e voce a tecniche e valori formali tornati prepotentemente in campo… Ma lo fa senza remore, prendendo a base del suo lavoro l’antico concetto di “arti del disegno” di vasariana memoria, riscoprendone e aggiornandone i precetti. In ogni caso, alla fine a prevalere è l’elemento concettuale rispetto a quello dell’antico “far con le mani”, come scrive Franco Solmi. Nonostante, infatti, l’indiscutibile, straordinaria padronanza di mezzi, nelle opere di Triglia alle suggestioni classiche si uniscono automaticamente, in un tutt’uno, le acquisizioni della più arrischiata modernità. Tutto qui, infatti, si rapprende, si trasla, proietta l’elemento somatico (e semantico) in un’atmosfera di astrazione simbolica. L’anatomia preponderante diviene architettura, sublimazione mistica… Ogni cosa acquisisce un lessico, un concetto ed una rappresentazione di modernità quali componenti essenziali della spinta e della motivazione creativa.
Nell’opera dal titolo “Mistica Dorica”, che senza andar lontano, è possibile ammirare come si diceva prima nell’Aeroporto di Lamezia Terme (sala arrivi) ecco allora che l’affascinante “sirena” apollinea di Triglia si anima, si carica di allusioni, diventa colonna, si trasforma in mare e spuma, perde il connotato umano-anfibio e diventa mito astratto, stilizzazione…
Come scrive Carlo Munari, Triglia è artista “che aspira all’ordine, alla durata, alla stabilità”. La sua è una “scultura colta”, dove appunto la forma è bloccata nella sua precisione, ma al tempo stesso è scompaginata, vivificata, proiettata e traslata “au dehor” dalla ripartizione prospettica di marca futurista. L’energia, così, può posizionarsi direttamente alla base dell’intero lavoro, vivificando un linguaggio che potrebbe risultare necrotico, statico, anche se obbediente, e utilizzando per converso un principio dinamico che crea tensioni e pulsioni di rara forza e rara energia poetica…
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