04 Set Le CASE DI CASTAGNA, RITORNO AL PAESE. UN racconto.
Un denso, poetico e “illuminante” scritto breve, dedicato con tutto il cuore alla località della Sila Piccola, rimasta con poche anime dopo decenni di inarrestabile emigrazione e dove tuttavia la vita scorre ancora, e forse pure bene, lontana specialmente d’inverno dal frastuono della modernità dei centri più grandi. Il tempo è però crudele quando non viene gestito, sgretola i ricordi, inganna persino l’indifferenza degli animi, come il fuoco incustodito che brucia i pagliai e le torri d’avorio. È perciò strano e doloroso osservare le case vuote con gli occhi del ritorno, come se qualcuno ne avesse accelerato l’usura…
di Paolo Arcuri
Premessa. Castagna è una frazione di Carlopoli, nel cuore della Sila Piccola, a circa 40 km da Catanzaro. Oggi poco più di 600 abitanti, dopo l’inarrestabile emigrazione che, dal dopoguerra, ha continuato inesorabilmente a colpire buona parte dei piccoli centri dell’Appennino calabrese. È qui che nel 1964 è nato Paolo Arcuri, operaio edile domiciliato in Friuli da alcuni anni, con famiglia al seguito. Appassionato di storia e scrittura, nel 2011 ha pubblicato con le Edizioni Ursini il suo primo romanzo storico “Sandali di ortica. Storia di un calabrese sovversivo”, primo classificato al Concorso di narrativa “Torre Petrosa” di Vibonati (Sa). “Le case di Castagna. Ritorno al paese” è il prezioso racconto inedito, lucido e amorevole, introspettivo e icastico, di cui Arcuri ha fatto gradito omaggio a Calabria Mundi, e che qui pubblichiamo accompagnato da un sincero ringraziamento. Roberto Messina
È strano osservare le case vuote con gli occhi del ritorno, come se il tempo ne avesse accelerato l’usura. Ed eccole ancora qui come vecchie croci piegate alla terra nei cimiteri degli antichi ricordi. Inesorabile è il destino per queste case, del loro corpo ne rimane il vuoto spartano delle stanze, le tracce polverose di chi l’aveva vissute. Come freddi fantasmi di pietra saranno condannate all’oblio dalla morsa del tempo. Arriveranno gli anni che i nostri paesi cederanno il passo a quello che sembra ormai inevitabile: lo spopolamento e l’abbandono. Verranno i tempi che le mura di queste vecchie costruzioni disabitate crolleranno sotto il peso dei tetti, cadranno le vecchie e usurate travi di legno, non più forti di muratura di testa non più temprate di squadratura d’ascia. Dall’inevitabile consumo del tarlo cederanno al polveroso marciume i letti di legno dei coppi, gli stipiti e gli architravi, si schioderanno i cardini arrugginiti dei vecchi portoni, si sgretolerà l’amalgama umida di argilla e calce che manteneva le centenarie pietre.
Così si dichiareranno battute per sempre le vecchie case. Già, il tempo non ha fretta! Stagione dopo stagione, anno dopo anno, la goccia d’acqua arriverà a bucare la pietra. Il tempo consuma, erode, accorcia lentamente anche le montagne. Cosa resterà dei nostri vecchi paesi, se non cumuli di sedimentate macerie di polveri inerti. Il tempo è crudele quando non viene gestito. Il tempo sgretola i ricordi, coprendo nei sudari gli audaci propositi antichi. Il tempo inganna persino l’indifferenza degli animi, come il fuoco incustodito che brucia i pagliai e le torri d’avorio. Chi resterà in questi posti vivrà il suo tempo silente, come ciechi barcollanti, come smemorati senza passato, senza tracce di cosa fu l’edificante sapienza delle nostre origini. Quando il degrado avrà finito di stendere il suo velo e avrà compiuto il suo corso, con il dissiparsi degli olazzi di vita, resterà di noi solo la sepolcrale sconfitta del nostro futuro.
Tuttavia la vita scorre ancora in questo piccolo paese, lontana specialmente d’inverno dal frastuono della modernità dei centri più grandi. Piove, e seppur pomeriggio, riprendo a piedi la via verso casa. Marzo è l’inverno che stanca a morire; è lungo da passare, e come la coda del maiale dicevano gli antichi (si lascia in ultimo perché ci vuole molto a raschiarne il pelo). E così mi avvio sull’asfalto lucente di pioggia, con l’odore nelle narici di polvere spenta. Vado spedito sulla direttrice della strada che segna tra le case la cresta del paese. È un buon modo per raccogliere i pensieri camminare, essere soli nel cammino e come ritrovarsi, impadronirsi di uno spazio temporale che solo esso può dare.
Un compromesso tra occhi, gambe e naso, portandomi dietro il carico di pensieri frantumati nella mia memoria, solo e senza ombrello nel tedio grigio di un altro giorno che velocemente andrà a morire. E così mi ritrovo a ripercorrere i miei passi tra le forme disordinate di queste vecchie case, cercando il nesso che allacci il mio presente col mio passato. Sembra strano, ma la greve pioggia che cade riflette nei suoi rivoli una luce alterata, una pesta malinconia per quei posti destinati all’abbandono… come se in queste viuzze sentissi di nuovo quel senso d’inquietudine di essermi allontanato dalla sicurezza della casa, e nelle gambe gli stessi incerti passi che muovevo strisciando sulle grigie e scrostate mura di questo paese, lo stesso timore di essere osservato, in quel tempo ormai lontano di quando allora ero bambino.
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