“I fichi rubati. E altre avventure in Calabria”: il ritorno alle radici di Mark Rotella

Nel libro di successo negli Usa, tradotto in italiano per Rubbettino editore, l’avvincente “viaggio a ritroso” compiuto e raccontato dal prestigioso editorialista americano originario di Gimigliano (Cz), alla ricerca della sua Calabria

di Roberto Messina

Il giornalista e scrittore americano Mark Rotella
(foto Creative Commons)

Un libro che consiglio di (ri)leggere (…e non solo perché io ne abbia suggerito la pubblicazione italiana e scritto l’Introduzione) ma perché è davvero una sorpresa. “Fichi rubati. E altre avventure in Calabria” (Rubbettino editore) di Mark Rotella è intanto un’ennesima conferma della sostanziale immortalità del romanzo. E più nello specifico, della vivacità della letteratura di viaggio contemporanea, del reportage colto che sa fare i conti con la realtà e che questa forza icastica riesce a sintetizzare ed a trasporre in seducente metafora narrativa. Pubblicato nel 2013 nella magnifica collana “Viaggio in Calabria” diretta da Vittorio Cappelli (quale traduzione italiana di “Stolen figs and other adventures in Calabria – North Point Press, New York 2003), è il racconto della “realtà” rincorsa e trovata da Mark Rotella, editorialista di successo e scrittore a New York, nipote e figlio di emigrati di Gimigliano (Cz) salpati dapprima per l’enclave calabra oltreoceanica di Danbury in Connecticut, poi in Georgia, quindi in Florida e poi ancora sulle sponde dell’Hudson in quel di Manhattan. La Calabria immaginata, la Calabria sognata, la Calabria fatata, la Calabria raccontata, la Calabria “sperata”. Il canto sempre grandioso della terra d’origine e dei suoi valori. La riscoperta a tutto campo della propria “heritage”, dopo aver persuaso suo padre, partito verso il Nuovo Mondo nel lontano 1913, a visitare il paese natio a ben trent’anni di ininterrotta lontananza: “ogni giorno dei quali trascorso non senza sentire la mancanza di Gimigliano” – dichiara Rotella.

Assieme al genitore che parla il classico “italiese”, commosso e anche un po’ dubbioso sull’effettiva “bontà” e utilità di questo loro viaggio, come spiega: “Papà mi aveva raccontato tante di quelle storie sulla Calabria, dove i suoi genitori erano vissuti da poveri contadini, che alla fine gli chiesi di andare con lui al paese, ma egli, ignorando deliberatamente il mio desiderio disse: “sono vecchie storie, successe decenni fa. Perché rinvangare il passato?” “Perché no?”, risposi, “Che c’è di così terribile nel passato“, Rotella si avvia a ripercorrere i passi degli avi, tornando a Gimigliano per riaprire l’album di famiglia; per stringere saldamente i rami di quel grande albero genealogico che è legato lì, e solo lì, alle sue profonde e generose radici; per ricostruire la sequenza del proprio dna, anche come medicamento delle proprie ferite interiori, immancabili in chi ha avuto l’ardire di compiere “il temerario gesto” dell’emigrazione oltreoceano, o in chi di quel gesto è figlio.

Rotella stila così un “memoir” d’autore tra verità\autenticità fattiva ed emotiva, che è solo a tratti malinconico, quasi sempre invece positivo, ottimistico, con una prosa ridotta all’essenziale, scarna, nitida, misurata, stile cronista, trasparente, che si traduce in un racconto autentico, sincero, emozionante, vero, singolare. Non teso a narrare\rivelare (come ci si sarebbe potuto attendere) un mondo bucolico suggestivo ma che resta distante, estraneo, straniero (come quello, per esempio, che fa da sfondo alle opere dei grandi scrittori del grand tour alla Norman Douglas e George Gissing, più volte citati in questo libro, e comunque dichiarati riferimenti di Rotella nel suo “pelerinage” calabro), ma piuttosto a seguire e svelare la “corrente” contemporanea, la cadenza delle cose di ogni giorno. Quelle che stanno sotto gli occhi di ognuno e che qui vengono interpretate e raccontate con logos piano e semplice. Rese nell’immediatezza sorprendente della loro pura presenza. Nel naturale manifestarsi. Nel loro heideggeriano “esser-ci”.

L’edizione italiana del libro di viaggio di Mark Rotella per Rubbettino Editore

Rotella ha la tempra del narratore e del giornalista di classe, che raccoglie, fotografa, descrive quel che vede, proprio come farebbe un antropologo. Ma senza spegnere il filtro emotivo. Con un pensiero quasi involontario e non progettante. Con gli occhi dell’anima che sanno cogliere nel paesaggio il “suo” paesaggio. Nel brutto, riconoscere il bello. Nel caos, l’ordine. E nella scialba routine quotidiana, il grande miracolo dell’umanità che si rinnova ogni giorno. Le città, la campagna, da disordinate, involgarite, immiserite e abbandonate, come purtroppo sono effettivamente diventate in più d’un caso, si ri(e)leggono, si elevano così a nuova e più degna vita, come luoghi di charme e di poesia, di ineffabile magia: anche uno stretto vicolo di muri scrostati animato da curiose voci; o il semplice verso di una cicala, solitaria e ostinata, nascosta tra le foglie di un castagno.

Questa poesia, questa magia, sono quelle del tutto o quasi perdute altrove, come una misura del vivere venuta meno, smarrita, anche nella più sfavillante e migliore urbanità o periurbanità country degli Stati Uniti d’America, in quel “paese di promessa e di speranza”, come venne definito da Charles Dickens il Nord del Continente e lo sterminato Canada in particolare. Rotella descrive poi in questo modo, emblematicamente, la città capoluogo della Calabria: “Certo, ero consapevole del fatto che in confronto ad altre città italiane, Catanzaro appariva come il caos frutto della pessima pianificazione. Ma i miei occhi avevano scelto di focalizzarsi sulle facciate medievali nascoste nelle stradine laterali o nei vicoletti addobbati con vasi di fiori”. (…) “Sai Marco – gli suggerisce nel romanzo Thessy – ieri ho trascorso una bellissima giornata. Ho camminato lungo tutta Catanzaro e ho trovato quelle stradine di cui mi parlavi e, sai, alla fine ho guardato Catanzaro attraverso i tuoi occhi, con il tuo ottimismo americano. E ci sono degli elementi molto affascinanti e interessanti nella città. C’è, a dire il vero, un certo charme qui”.

L’edizione americana del libro
di Rotella pubblicata nel 2003
da North Point Pre
ss

Il viaggio si snoda da nord a sud della regione con base Gimigliano, passando per Taverna e Mattia Preti, Sibari e gli scavi, Cosenza, Reggio Calabria e il museo con i bronzi. Periodo in cui scopre un mondo, impara a fare il pane e il limoncello, mangia naturalmente i fichi… e tanto altro ben di Dio, va allo stadio tra gli ultras del Catanzaro calcio.

Lo scrittore, che pure per dare compiutezza e spessore a questo libro, si è certamente “ripassato” la storia calabra, si è documentato (immaginiamo anche con sincero entusiasmo) e ne ha ripercorso i secoli per comprendere la storia della regione e sé stesso, non è però un Lenormant, un Lear, uno Swinburne; e nemmeno un Piovene, un Bocca o un Montanelli. Non appartiene all'”età” dei primi. E non ha lo “spirito” dei secondi. Non è venuto in Calabria per un’aristocratica vacanza educativa da lord inglese o da bourgeois gentilhomme francese. E neppure per fare giornalismo d’inchiesta alla scoperta di misfatti da denunciare asetticamente, come devono fare gli “onesti cronisti milanesi” in una regione ritenuta aprioristicamente del tutto periferica (o invece, e perché no, se fosse pure stata scientemente “periferizzata”?), ancestrale, contraddittoria, misteriosa, violenta, arroccata su sé stessa.

Quella di Mark Rotella non è per questo, e mai, un’intrusione. E nemmeno, assolutamente, una violazione. E’, invece, il risultato di tutto un altro “grand-petit tour” da calabro-americano. Di un’autobiografia costruita su altre biografie. Di un viaggio sentimentale di pacata riscoperta (pure se sostenuto al ritmo e messo sotto la lente d’ingrandimento di un figlio della dinamica e “navigata” società made in Usa). Di ciò che per lui diventa anche, e necessariamente, un’occasione di “emanciparsi dalla sua emancipazione” di yankee, ben consapevole – per stare alle parole di José Saramago – che: “viaggiare dovrebbe essere tutt’altro, fermarsi più a lungo e girare di meno, forse si dovrebbe addirittura istituire la professione del viaggiatore solo per chi ha tanta vocazione; è di gran lunga in errore chi crede che sarebbe un lavoro di poca responsabilità, ogni chilometro non vale meno di un anno di vita.” Ciò che leggiamo in “Stolen Figs”, ciò che “vediamo”, è allora letteratura, cronaca, racconto inaspettato. Ci verrebbe da dire: non solo la prevedibile cronaca della Calabria alla luce dell’America, ma un po’ anche quella dell’America riflessa nella luce della Calabria… Col cuore pieno di emozione, egli cerca dunque la verità delle (e nelle) cose. Che è anche la sua verità, la sua peculiare “identità di frontiera”. Il suo essere un po’ di qua e un po’ di la. A cavallo di due mondi. Davanti ad un universo su cui, come in un dipinto caravaggesco, cerca di far piovere il chiarore che illumina il buio dell’estraneità e rende “normale” (come fossero invece, per stare ancora alla metafora pittorica, i soggetti di un affresco di Piero della Francesca) uomini, cose, paesaggi della terra dei padri.

Rotella appartiene ad una razza speciale, capace di “deviare”, di “salpare”, di guardare con decisione e irresolutezza verso l’alto, superando ogni costrizione, ogni forzatura, ogni luogo comune. La sua condizione ed esperienza di “doppia appartenenza” da sola non coincide, non si esaurisce con quella da esule, da nomade, né da membro attivo della diaspora. Il suo vissuto quotidiano è altro: una sintesi, una sedimentazione, un tutt’uno col luogo abbandonato: “in una qualche certa misura – ci illumina il prof. Francesco Loriggio, docente di Letteratura Italiana all’Università di Ottawa – l’emigrante italiano ingrandisce al di là della nazione il raggio dell’italianità (…) un’Italia che si situa permanentemente fuori dai confini della penisola“. Non è vero, infatti, che è possibile invertire i fattori senza cambiare il risultato? Cioè, che origini, e propaggini di queste origini, identità, corrispondenze, similitudini, possono cambiare indifferentemente ruolo? E che, alla fine, possa diventare l’Italia “little”, piuttosto che le varie “little Italy” più italiane?

Panorama di Gimigliano (Cz)
(foto Giuscoz – Creative Commons)

“Nostou algheia”, dolore (e desiderio) del ritorno. Vicino, o a tratti lontano come in un cannocchiale a rovescio, il mondo calabro diventa un fondale naturale. Una soglia da varcare nell’incuranza del fumo soffocante e del vociare dei giocatori ebbri di vino al tavolo della briscola. Un magnifico teatro. Un palcoscenico di cui riappropriarsi. Un’opera da ricostruire, da rimettere in scena. Magari pagando pure il dazio a quella “convinzione anglosassone” che non vuol smettere di credere che la platea ha definitivamente chiuso le porte al progresso della civiltà di cui pure è stata un tempo artefice.

La nostalgia, talvolta, serve a confermare a sé stessi la propria differenza, la propria metamorfosi frutto e somma di vita e cultura nazionale, oriunda e meticcia. E’ utile a far scivolare l’io nell’autoanalisi, e al tempo stesso nella prospettiva escatologica. Serve a mettere in azione i meccanismi della critica sociale come fasi comunitarie e realistiche dell’immaginazione migratoria.

Nostalgia: fedeltà o infedeltà a ciò che si è. O a ciò che si crede di essere. Fedeli\infedeli anche ad un altro sé stesso, se si trova la chiave per gestire entrambi i saperi acquisiti. Mutamento del mutamento, fuga dalla fuga, fondazione della fondazione: in ogni caso una “dura lex”, confusa e frustrante, in cui la salvezza, l’emancipazione, si possono ottenere (magari anche in extremis) solo “con” la propria storia. Mai “contro”. L’autoriflessione conduce ad una vera riappropriazione. Non c’è qui traccia, infatti, di una qualche “pietas”, di commiserazione, di scarto, di iato. Piuttosto, di una vera accettazione ed ammirazione per la cultura in cui questa gente è cresciuta. Anche di una “connivenza” con il materiale narrativo. E di assiduità, contiguità drammaturgica, senza, per questo, alcuna necessità di “trovate” distanzianti, di spersonalizzazioni, di retorica. Il viaggio, il “travel” non è dunque “travail” come patimento; ma “travaglio” come maieutica, parto, viatico obbligatorio per una nuova nascita, per una conquista di conoscenza.

Oltre il Carlo Levi del classico “Cristo si è fermato ad Eboli” (per la cui traduzione americana nelle edizioni Farrar, Strauss, Giroux, Mark Rotella ha scritto l’introduzione) il suo vero riferimento letterario resta dichiaratamente Gay Talese, il celebre autore de “Ai figli dei figli” e di “Onora il padre”: calabrese anche lui, originario di Maida, che a proposito di “Fichi rubati” dichiara senza mezzi termini che per la nuova generazione di italoamericani che vuole riscopre la terra dei padri, la homeland: “non c’è una migliore guida di Mark Rotella“. Un complimento che gli avrà fatto piacere, da chi in particolare col suo ‘Ai figli dei figli’, gli ha offerto – come racconta lo stesso Rotella -: “la prima fugace veduta della Calabria e degli italo-americani di discendenza calabrese. Mi aveva fornito gli strumenti per capire i miei nonni e la scelta che avevano fatto e per capire quella cultura italo-americana all’interno della quale mio padre era cresciuto. Non è esagerato dire che il libro mi aveva spronato ad esplorare il lato italiano della mia personalità“. Bill Tonelli, direttore di Italian American Reader, dice invece che questo lavoro “ha fascino, interesse, grazia, un genuino contributo per quello che sappiamo di ciò che eravamo una volta”.

La vecchia locomotiva FCL 504 alla stazione di Gimigliano
(foto Creative Commons)

C’è pace in questo libro. Tranquillità. Poesia. Commozione. C’è tanto, molto di “noi”. C’è una buona predisposizione e una costante, mai gridata, quanto soave e poetica evocazione, con orecchie ben aperte, occhi spalancati e piedi ben piantati nell’argillosa terra bruzia. Non solo, dunque, il mero documento, ma la restituzione del senso di una situazione umana. Più che di persone, però, in queste pagine si incontrano soprattutto vigneti, ulivi e fichi… Tre sacre icone del Mediterraneo e della Calabria. Tre presenze preziose e costanti, fondamentale lascito dei magnogreci su cui s’è costruita una civiltà e una storia alimentare millenaria, vera risorsa e valuta pregiata locale. Elementi analitici concreti, ma anche freudianamente allusivi di un viaggio iniziatico al contrario: un “ritorno all’inizio”, un rientro al centro della terra, con una matita colorata che disegna sul foglio bianco accompagnata dalla mano di un bimbo, una veduta arcadica di quiete cosmica.

L’album dei ricordi e degli incontri si sfoglia, si sequenzia, si campiona con altrettante vedute, e introduce a segreti paesaggistici e alchimie cromatiche che rimandano, e come per incanto sollecitano direttamente, a sensazioni epidermiche, olfattive e gustative soprattutto, con il racconto della desiderabile cucina calabra e i suoi “ingredienti tematici” meridiani. Soppressata, ‘nduja, pasta di casa e ragù di coniglio. Frittelle con le alici e castagne arrostite. Il sapore deciso del formaggio pecorino. L’odore dolce e pungente della salsa di pomodoro bollita sulla stufa. La tinta, il tono e la sapidità di un vino rosso servito fresco nella caraffa. La freschezza croccante delle fave appena colte. Il sapore unico dell’orzata ghiacciata. Tutte espressioni della particolare maniera di utilizzare la natura e rapportarsi al mondo della produzione agricola, ai suoi tempi, alla sua lunga storia. E’ questa, per Rotella, la “way of ospitality and cooking”: il modo tutto calabrese di fare tavola e di fare accoglienza, di trattare gli “ospiti”, magnifico esito di una lunga e gloriosa tradizione di civiltà. E poi, naturalmente, ecco l’incontro con il piccante, presenza ineludibile per gli uomini e, più sorprendentemente, per le donne: “mia nonna raccontò una volta a mio padre che quando era incinta di lui aveva voglia di peperoncino”- scrive.

Anche il tempo della cucina e del suo consumo, come quello del quotidiano – scopre con sorpresa Rotella – è qui un tempo particolare, inusuale, allungato, distorto, incantato: “il tempo è diverso per i calabresi, che si aspettano che le persone (per buone ragioni) si rincontreranno di volta in volta. Ciò significa che nonostante il senso degli italiani per la storia, sono preoccupati esclusivamente del presente e non sono terribilmente nostalgici; ciò che è stato è stato. Che differenza con gli italiani degli Stati Uniti, pensai, che bramano un vecchio Paese che probabilmente non ne sente la mancanza quanto la sentono loro!” Per restare al cibo e alle sue metafore, assoluto protagonista (visto anche il titolo dato al libro) è qui il fico, col detto che “non c’è nulla di più gustoso dei fichi rubati”. “Gli alberi di fico – spiega affascinato – crescono quasi dappertutto in Calabria. Lungo le colline, sui monti, nelle valli; spuntano persino tra le pietre dei muri di palazzi abbandonati. Le loro radici cercano qualsiasi traccia d’acqua. I fichi sono lì per essere presi. Non serve il celebre proverbio calabrese per spiegare quello che sanno tutti: ‘U ficu è na cucca, cu l’acchiappa si l’ammucca’ (il fico è un frutto molto buono e ognuno vuole mangiarlo). ‘U ficu l’ha benadittu a’ Madonna’, il fico è stato benedetto dalla Madonna, perché gli alberi di fico fruttificano due volte: una all’inizio dell’estate e una a settembre. In Calabria tutti conoscono la stagione dei fichi. ‘Alivu russu e fichi pittirilli’: quando le olive maturano, i fichi sono ancora giovani. I miei nonni lo sapevano, così come mio padre anche a distanza di anni”.

Rotella si appassiona alla materia vuole sapere di più sull’aria, la terra e il cibo che producono e che fanno esistere i calabresi, e viene a capo del fatto che la Calabria: “è la seconda maggiore produttrice di fichi, ma come accade con gran parte delle cose che produce, vede tornare veramente pochi soldi per quello che esporta. Al contrario dei tartufi del Nord, per i quali serve il fiuto dei cani e dei maiali, i fichi in Calabria crescono dappertutto, sono considerati un frutto scontato, e vi è un margine di guadagno minimo”. Non ha mai mangiato un fico fresco prima di tornare in Calabria, e questa sua “iniziazione vegetale” diventa allora il simbolo della sua riammissione nella “setta” gimiglianese e nella grande popolazione calabra: quella di un “‘mericano” riconosciuto (e che si riconosce) innanzitutto a tavola come calabro: “ritornando sempre più spesso in Italia ho capito che non era il Colosseo, i dipinti di Michelangelo, la voce di Pavarotti o la poesia di Dante che mi rendevano più italiano, ma era il modo in cui venivo percepito dai miei amici americani. C’è voluto un viaggio di ritorno in patria per capirlo, ma per me, molta della mia identità italiana è data dalla salsa rossa dei ristoranti italo-americani, i negozi di gastronomia locali, Frank Sinatra, Tony Bennett, Gay Talese, Mario Cuomo. La mia identità è modellata dagli scalpellini italiani che hanno costruito il centro di New York e le chiese in tutto il nord est dell’America; dagli uomini e le donne che cucinano le scarole e fagioli che fanno venire l’acquolina in bocca. Gli italiani che hanno trascorso un periodo anche relativamente breve di uno o due anni negli Stati Uniti, tornati in Italia sono un po’ meno italiani di prima. Un figlio tornato in Italia, in qualsiasi zona del Paese, viene chiamato affettuosamente ‘l’americano’. Che lo volesse o meno, mio nonno ha perso uno strato della sua identità calabrese nel momento stesso in cui è sceso dalla nave. In parole povere, sono italiano tanto quanto mio padre”.

Quando Rotella condivide questa sua riflessione con il padre, questo sorride e dice: “Che ti aspettavi? Pensi che io sia più italiano di te?” “Ho sempre saputo di essere italiano – spiega Mark – ma fu solo durante il mio primo anno al liceo cattolico di St. Petersburg, in Florida, che appresi di essere calabrese, o meglio che gli italiani si identificavano principalmente in base alla loro regione di provenienza piuttosto che alla nazione. Un ragazzo che aveva riconosciuto il suono italiano del mio cognome mi chiese di dove fosse la mia famiglia, annunciandomi fiero che la sua proveniva dalla Sicilia. Feci spallucce non sapendo cosa rispondere. Il pomeriggio, giunto a casa, chiesi a mio padre: ‘siamo siciliani?’. Mio padre mi osservò e ‘Diavolo no,’ disse ‘siamo calabresi! Veniamo dalla punta dello stivale, quella parte che prende a calci in culo la Sicilia’. Non l’avevo mai visto saltargli la mosca al naso per le sue origini. Da quel momento in poi, mio padre cominciò a indicarmi tutti quelli che per sentito dire erano calabresi“.

Il quadro della Madonna di Porto
nel santuario di Gimigliano

Con tale incedere, Rotella è destinato a scoperchiare molto altro della sua calabresità, un passo accanto e uno dietro ai protagonisti del suo libro. A partire dallo stereotipo della testardaggine, dalla gestualità vistosa ed energica, dal parlato ad alta voce, dall’usanza di offrire al bar, dal suono del dialetto:”una miscela araba di ‘h’ e di parole che terminano con la ‘u’”, dalla grande religiositàe devozione mariana, a cominciare proprio dal familiare Santuario di Porto, con le immagini della Madonna: “dalla faccia inglese, con un manto blu e due angeli in volo che le posano una corona sulla testa incorniciata da un’aureola. (…) Mia nonna pregava la Vergine e traeva conforto nelle immagini della Madonna col Bambino sparse lungo la sua casa. (…) Quasi ogni anno mandava soldi alla Madonna di Porto. Ogni volta che qualcuno bussava alla sua porta – venditori, idraulici, testimoni di Geova – lei chiedeva in un inglese approssimativo se potevano dare un contributo per la chiesa di Porto e rimaneva con lo sguardo triste se qualcuno diceva di no. Era l’unica che manteneva il legame con l’Italia attraverso i fratelli e attraverso la Vergine Maria. Era devota a questo luogo distante, al Paese e al villaggio dal quale lei e mio nonno erano venuti via“.

E’ una continua “discoverta” vichiana, tra bellezza e autenticità, tra impegno formale e impegno sociale: due sponde entro cui tende ad ondeggiare questo suo lavoro. Con il documento, la storia, che diventano così poesia. E la poesia storia e documento. “Memoria del passato e promemoria del futuro” – direbbe Francesco Loriggio, calabrese di Ottawa, acuto ed impareggiabile studioso della letteratura italo-canadese.

La Calabria mostra dunque l’archivio, il catasto, il prospetto di una terra “naturale”, con la sua preziosa artigianalità. Il “far con le mani” di vasariana memoria: tante belle cose prodotte con amore e con uno stile di vita semplice. Ma accanto a questa vita, ancora amena e significativamente rurale, vicino a questa sua luce salvifica, Rotella riconosce il peso nefasto, l’ingombro, la contraddizione, l’esizialità di un’organizzazione criminale prospera quanto invadente e feroce. Zigzagando tra una provincia e l’altra, alla scoperta dei fasti archeologici, dei paesi arbëreshë e di quelli grecanici, impatta con vari altri luoghi in cui il cronico scarto di civiltà, il degrado politico-economico-ambientale, l’immobilismo, la rassegnazione, lo smarrimento, l’omertà, l’incompiutezza, la modernizzazione imperfetta, la latitanza dello Stato, hanno creato situazioni gravi ed insanabili, che come lacci ingabbiano la società e ne inibiscono del tutto la voglia di riscatto. Intuisce, quindi, e appieno, la mortificante debacle della Calabria odierna, il tunnel, il “cul de sac”, la strada senza uscita, riflessa già plasticamente, in tutta evidenza, nello “spettacolo” plastico, triste e desolante dei lavori pubblici fatti con i piedi, di strade e trasporti inadeguati, di opere incompiute, di terre abbandonate: di tutto ciò che reifica e priva di valore ogni suo più prezioso inventario.

L’ultimo libro di Mark Rotella dedicato ai grandi
cantanti italoamericani

Ad un certo punto del racconto, si lascia sfuggire una dura considerazione semantica e di filosofia del linguaggio: il fatto che anche il nome stesso della regione, non sembra avere nulla di romantico: “Calabria. Suona come una minaccia, una maledizione. La ‘c’ dura, danza sulla tagliente ‘l’ prima di colpirti con un pugno uno-due di ‘b’ ed ‘r'”. La terra natìa, prosegue, gli pare mancare: “della mondialità di Roma, della sofisticazione di Firenze, della grazia medievale di Bologna, della fluidità dell’Emilia Romagna, della complessità di Venezia”. Non esita, però, e prontamente, a considerare come: “le bellezze naturali della Calabria, sono state spogliate dalla siccità e distrutte dai terremoti. Le sue ricchezze, sono state saccheggiate da re e baroni e prese a prestito dai contadini. Per apprezzare la Calabria, bisogna immaginare tutto ciò che è stato. Si deve raccontare di portali del diciottesimo secolo, intorno ai quali è stato costruito un nuovo intero edificio; muri di pietra dai quali fuoriescono erbacce e che fanno da sfondo a orti; pile di pietre che una volta erano state un tempio di una delle più grandi e potenti città della Magna Grecia”.

Accade altrove, ma soprattutto accade in Calabria, dice Rotella: “la bellezza non appare sempre in superficie“. Forse, allora, la partita non è chiusa, forse tra Scilla e Cariddi qualche solido natante col suo equipaggio sfinito e smarrito, può ancora salvarsi dal gorgo, dalla dannazione, dal sortilegio e dalla maledizione. Forse può essere ancora questo il tempo del riscatto…

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