Giuseppe Manica, uno straordinario ambasciatore di cultura

Intervista a tutto campo al diplomatico, professore, giurista, accademico, grande organizzatore, e soprattutto formidabile carriera da direttore di vari Istituti Italiani di Cultura all’estero, originario di Crotone. Cursus honorum e studiorum di primo livello, quarant’anni di appassionato lavoro per promuovere la cultura del Belpaese attraverso l’organizzazione di una miriade di eventi con personalità del calibro di Eco, Bobbio, De Felice, Gassman, Strehler, Antonioni, Levi Montalcini, Spadolini, Tornatore, Portoghesi, Argan, Quilici.

di Roberto Messina

Giuseppe Manica insignito del Premio Aldo .F. Pessina
(Roma 2018)

‘Rivedo Crotone, il suo lungomare, il porto, la piazza Pitagora. Riaffiora il ricordo di mio padre che mi portava a passeggio, tenendomi per mano. Il mondo della mia infanzia non è stato né ricco né povero. Viveva nei ritmi lenti di una cittadina di mare, gravida di memorie millenarie, e abitata da gente solida e fortificata dalla lotta per l’esistenza, tanto ferma negli affetti profondi, quanto decisa a prescindere, soffocandoli dentro, in nome di emergenze e necessità più pressanti.

Ricorda così, in un pomeriggio metafisico illuminato dal sole mediterraneo, la sua Calabria e la sua Crotone, Giuseppe Manica, classe 1945, “migrante” anche lui per imbastire con inusuale perizia un’onesta quanto straordinaria e meritatissima carriera: “civil servant” del Ministero degli Affari Esteri, e dal 1974 addetto culturale presso le nostre Ambasciate e direttore degli Istituti di Italiani di Cultura di mezzo mondo: da Beirut a Damasco, Nuova Delhi, Ankara, passando per Tunisi, Barcellona, Budapest, Lisbona e concludendo la sua carriera con Stoccolma e Bruxelles, dove ha ricoperto anche il ruolo di consigliere culturale e  di coordinatore d’area.

Quarant’anni di appassionato lavoro per promuovere la cultura italiana attraverso l’organizzazione di innumerevoli eventi con protagonisti (solo per citarne alcuni) personalità del calibro di Eco, Bobbio, De Felice, Gassman, Strehler, Antonioni, Levi Montalcini, Spadolini, Tornatore, Portoghesi, Argan, Quilici, e con la promozione, con traduzione e pubblicazione in altre lingue, dei libri di Magris, Ginzburg, Maraini, Machiavelli. E tanto altro ancora, per un cursus honorum che è un’interminabile sequela di eventi di qualità, di forte significato, di altrettanta effettiva incidenza. E anche, poi, naturalmente, un cursus studiorum da fuoriclasse: laurea in Lettere classiche e in Giurisprudenza alla “Sapienza”; abilitazione all’insegnamento della Lingua e della letteratura italiana, latina, greca, storia e geografia; due cattedre vinte in Materie umanistiche; il concorso per titoli ed esami del Ministero per gli Affari Esteri; l’abilitazione all’esercizio della professione forense; il concorso per dirigente dell’Area della Promozione Culturale del Ministero degli Affari Esteri.

Un momento della premiazione

Dal 2010 Manica è stato, inoltre, docente di “Comunicazione e Diplomazia culturale” e di “Gestione e organizzazione di eventi” nei seminari e master organizzati da Università della Calabria, Roma Tre, Università per Stranieri di Siena, Accademia di Scienze Umane e Sociali, Ente COM 2, Dipartimento di Beni Culturali di Ravenna. Dal 2011 è docente di diplomazia culturale nel Master in “Esperti in politica e in relazioni internazionali” presso la LUMSA. Nell’ora del ritorno, davanti a questo mare infinito, che a seconda di chi lo guarda è limite che isola e protegge, o orizzonte che invita ad un viaggio senza fine, Giuseppe Manica è per noi la persona giusta per riflettere sulla cultura italiana ai tempi duri del covid, dopo quelli sull’austerity, sulla parola nell’era della twitter-crazia, sull’unicità della propria terra davanti all’omologazione universale.

Dottor Manica, proviamo a far capire importanza e ruolo degli Istituti Italiani di Cultura, ben 85, nei cinque continenti?

I nostri Istituti, in virtù della Legge 401/90, debbono assolvere come missione quella di promuovere la lingua e la cultura italiana. Un ruolo che viene ad affiancare gli altri settori di politica estera che l’Italia è tenuta a rappresentare nell’ambito delle relazioni internazionali. Gli IIC funzionano come uffici culturali delle nostre Rappresentanze diplomatico-consolari e sono diretti da personale di carriera inquadrato nell’area della promozione culturale del Ministero degli Affari Esteri. L’attività di promozione culturale, intesa in tutte le sue espressioni, contribuisce non solo a favorire il dialogo tra culture diverse, ma anche a porsi come strumento foriero di pace, in un mondo in cui riaffiorano molteplici e perniciose forme di razzismo.

Giuseppe Manica nella Residenza dell’Ambasciatore d’Italia a Stoccolma, Francesco Caruso, per la presentazione delle Credenziali al Re di Svezia, Carlo XVI Gustavo (2005)

Volendo abbozzare un bilancio del Suo impegno, quali sono stati i risultati, le “buone pratiche” realizzate, di cui va particolarmente fiero? Quali invece i rimpianti, gli obiettivi non centrati?

Per dirigere un IIC occorrono molta umiltà, un’approfondita conoscenza del Paese in cui si presta servizio, la conoscenza della domanda di cultura, perché si possa incrociare fruttuosamente la nostra offerta. Rimpianti? Direi, soprattutto, in termini “affettivi”: avrei voluto, infatti, essere più vicino a mia figlia Francesca, fruire più spesso della presenza degli amici a me più cari. Gli obiettivi non centrati? Mi sono trovato a dover rinunciare ad alcune iniziative di rilievo per mancanza di risorse finanziarie, visti gli esigui sostegni annuali del Ministero degli Affari Esteri e la contenuta vocazione mecenatistica di alcune imprese operanti nelle sedi estere.

Il Corriere della Sera ha in passato ospitato una Sua lettera polemica con la quale avanzava alcune riserve sul sistema di reclutamento dei dieci direttori cosiddetti di “chiara fama” politicamente nominati dalla Farnesina in virtù della Legge 401/90.

Il personale di carriera ha tutti i requisiti necessari per gestire e coordinare gli IIC. Non altrettanto, e non sempre, quelli di ‘chiara fama’, a volte sconosciuti al grande pubblico… e che non sempre hanno dato esempio di capacità gestionali, salvo eccezioni di personalità del mondo culturale in possesso di capacità manageriali.

Veniamo ad alcune note dolenti: in Italia il tempo medio dedicato settimanalmente alla lettura è circa 5 ore e mezzo, meno della media mondiale: ventitreesimo posto su trenta nella classifica mondiale. L’Italia, poi, è uno dei paesi europei che investe meno in cultura, dove sono tanti gli artisti e i “lavoratori cognitivi” che fanno la fame e sono costretti ad emigrare.

Con l’allora Ministro degli Affari Esteri, Giulio Andreotti, in occasione
della sua visita all’Istituto Italiano di Cultura a Barcellona (1987)

Un peccato, davvero, se si pensa che Paesi come la Francia, la Germania, la Spagna, investono cifre molto più consistenti, consapevoli del fatto che ne ricaveranno benefici sotto altra forma. Da noi si scrive più di quanto non si legge. Facciamo un gran parlare di marketing, ma non sappiamo applicarlo alla promozione culturale, che potrebbe ripagarci, e non poco, specie in questo momento di crisi.

L’Italia ha un immenso patrimonio di bellezza esposto e fruibile nel sistema museale. Tutte le biglietterie statali italiane messe insieme, nel 2012 hanno però fatto introiti per un centinaio di milioni: il 25% in meno del Louvre da solo. Pagano il biglietto:1 visitatore su 2 in Campania, Veneto e Piemonte;1 su 3 in Puglia e Liguria;1 su 18 in Calabria! Come riescono, meglio di noi, gli altri Paesi, a mettere a frutto i loro tesori?

La Francia funziona, ma anche la Svezia, il Belgio, i Paesi Bassi e tanti altri ancora, che pur non disponendo di un patrimonio artistico come il nostro, sanno ricavare dalla gestione dei loro musei benefici di tutto rispetto. Bisognerebbe credere molto di più nelle potenzialità connesse col sistema ‘Cultura’, a cominciare dalla dirigenza politica. L’impiego di maggiori risorse umane ed economiche, di storici dell’arte affiancati da esperti di gestione del prodotto culturale, gioverebbe alla nostra causa.

Con il Presidente Giovanni Spadolini nella Residenza dell’Ambasciata d’Italia a Budapest, in occasione del conferimento della laurea honoris causa.(1994)

Com’è cambiata l’immagine dell’Italia e della sua cultura nel corso del tempo? Cosa resiste in termini di prestigio culturale?

Se si guarda all’immagine dell’Italia all’estero nel corso del primo quarantennio  del XX secolo, si dovrà rilevare che la nostra politica culturale era incentrata su  obiettivi di tipo propagandistico e nazionalista, conformemente a quanto imposto dall’ideologia fascista, mentre nel secondo dopoguerra  registriamo, alla luce del mutato contesto politico-economico, una nuova e sempre più crescente domanda di cultura, capace di esprimere le nuove tendenze e di far conoscere  i vari aspetti del nostro  ricchissimo patrimonio artistico. Agli occhi dello straniero, l’Italia si impone soprattutto per l’apice raggiunto in settori quali, a titolo di esemplificazione, quello artistico (Medio Evo, Rinascimento, Barocco, Futurismo), musicale, con particolare riferimento alla musica operistica, cinematografico (Neorealismo), del design, teatrale (Pirandello), della civiltà della tavola.

Ha scritto Franco Cassano: “Il pensiero non è indipendente dal mondo in cui nasce, alla luce, alle ombre. Il pensiero meridiano è quello che ha conosciuto il sole che interseca il mare, l’amore per la bellezza, la forza e la sofferenza degli eroi, il loro essere insieme sfida al cosmo e parte di esso. Il luogo dove è possibile dire nel modo più puro un sì al mondo è il Mediterraneo’’. Non potrebbe il Sud, compresa la sua Calabria ripartire da questa luce, da questo sì al mondo, evidentemente non delocalizzabile in una fabbrichetta cinese?

All’Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles con il giornalista Tito Stagno,
in occasione del 40° anniversario dello sbarco sulla Luna (2009)

Il Mediterraneo, il nostro Sud, in generale, culla di tante straordinarie civiltà che si sono succedute in epoche diverse, non meritano di certo quel presente che oggi gli appartiene: ma non tutto è negativo, ci sono fortunatamente delle eccellenze e delle risorse nascoste che, se opportunamente valorizzate, potrebbero produrre i loro effetti. Penso  a tanti giovani che sarebbero disponibili all’avvio di un’impresa, se fossero sostenuti  almeno nella fase iniziale dallo Stato; penso alle bellezze naturali del territorio, che potrebbero favorire l’industria turistica, se vi fossero degli amministratori capaci di lasciarsi guidare da un’accurata pianificazione e da un’oculata gestione finanziaria; penso alla mia città natale, Crotone (dove  ho trascorso la mia infanzia), al  suo centro storico, alle  rovine di Capo Colonna che necessiterebbero  di maggiore attenzione tenuto conto del suo passato glorioso(una delle città più illustri della Magna Grecia, che batteva moneta e che accolse Pitagora, fondatore della  celebre Scuola di filosofia, matematica e musica). Ma vorrei anche aggiungere che le risorse finanziarie provenienti sia dallo Stato che dall’Ue dovrebbero confluire nelle mani di amministratori che nutrano vero amore per la loro terra e che sappiano esprimere nel contempo un vero spirito imprenditoriale, affinché si arresti anche quel fenomeno migratorio che ha contrassegnato fortemente gli anni del secondo dopoguerra.

Nelle conferenze impazza l’inglesorum: si dice “food” al posto di “cibo”, “social” è più figo di “sociale”, “job” più rassicurante di “lavoro”, ‘’sentiment’’ più al passo con i tempi rispetto a ‘’percezione comune’’, brain storming ha rimpiazzato il troppo casereccio ”libero scambio di idee”. Suggerisco a Lei, che ha una profonda conoscenza delle lingue, il seguente spunto di riflessione: rinunciare ad usare l’italiano per descrivere un’idea innovativa significa forse sottintendere che la vera innovazione avviene sempre altrove, e che se vogliamo essere davvero “cool” dobbiamo fare finta di abitare quell’altrove e rinunciare al racconto che la nostra lingua può costruire del futuro?

Con l’Ambasciatore d’Italia a Lisbona, Antonio Catalano di Melilli,
primo da sinistra (1999)

Come promotore per circa un quarantennio della lingua e cultura italiana, non posso che dissentire da coloro che esaltano l’inglese quale mezzo linguistico nella comunicazione di oggi. Provo invidia per i francesi e per gli spagnoli, che hanno rispetto per la loro lingua, espressione di identità nazionale. Suscita viva preoccupazione, a questo riguardo, il ricorso del Politecnico di Milano al Consiglio di Stato (dopo la bocciatura del TAR) al fine di sostituire l’italiano con l’inglese nei corsi di laurea magistrale e di dottorato di ricerca.

Si è arrivati al punto di pensare che l’italiano possa essere non affiancato ma gettato via per privilegiare la lingua di Shakespeare. Non è servita dunque a nulla la battaglia condotta per diversi anni dal nostro Governo per impedire che nei concorsi pubblici dell’Ue l’inglese, il francese e il tedesco fossero i soli idiomi riconosciuti?

Il nostro Paese ha vinto, infine, alla Corte di Giustizia con una sentenza che dimostra che ci può essere posto per tutti pur nella molteplicità degli idiomi della nostra epoca. Ci chiediamo infine   per quali fini dovrebbero operare  l’Accademia della Crusca, la Società Dante Alighieri, le Università per Stranieri di Perugia e Siena, i numerosi Dipartimenti di Italianistica, operanti nei cinque continenti, se non per difendere, alla pari degli IIC, una lingua, che, oltre ad avvalersi di un lessico ricchissimo (il quale   non necessita certamente  di ricorrere ad anglicismi) si è fatta onore attraverso i secoli per aver prodotto un patrimonio artistico-letterario che ci viene invidiato nel mondo intero.

Con Amedeo Guillet (1909-2010)
nella residenza Irlandese, terzo da sinistra;
secondo da sinistra lo scultore Ennio Tesei

Veniamo alla terra natìa e ai suoi, diciamo, chiaroscuri…

Alla Calabria mitica dell’infanzia si contrappone oggi nella mia mente l’immagine reale di una terra al tempo stesso tanto bella e tanto infelice. Nelle mie impressioni di viaggiatore mesto, perché colmo di nostalgia e di sensi di colpa, c’è però che la Calabria mitica dei miei ricordi riesce comunque a resistere a questi mali.

Cioè?

La Calabria sommerge in sé i suoi tesori, presa da più gravi problemi concreti. Quando ritorno nei miei pensieri alla mia terra, la sua immagine mitica e quella storica si trasfondono l’una nell’altra, e il risultato è un’immagine complessiva di grande solarità in cui paradossalmente anche la povertà mi sembra ricchezza. Nulla è più dolce che amore: ogni altra dolcezza vien dopo: anche il miele. Così dice Nosside: quella che Afrodite non baciò non sa che rose siano i suoi fiori.

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