22 Nov Dall’ecologia, una grande lezione per la nuova economia, l’eguaglianza sostanziale E gli equilibri sociali e naturali
Intervista all’autorevole prof. Carmine Trecroci, docente di Economia e Finanza all’Università Statale di Brescia, originario di Cosenza, coordinatore nella città lombarda del Comitato operativo del Css (Centro sviluppo sostenibilità): “non c’è alternativa ad un ripensamento profondo del nostro rapporto con il capitale naturale, e rinviarlo o rallentarlo significa solo far crescere i costi futuri nell’inevitabile aggiustamento”
di Salvatore Montillo
A Cosenza, Carmine Trecroci torna ogni volta che può, e comunque in più occasioni durante l’anno. Il legame con la famiglia è forte, così come con la città dove è cresciuto, e con la sua terra, la cui parte migliore, che ti forma nel carattere – così ci dice lui stesso, deciso e chiaro -: “non è nelle sue meraviglie naturali o in alcuni suoi monumenti, ma nella capacità di resistere alle avversità, nella perseveranza che nasce dalla modestia delle origini di tanti di noi”.
Ordinario di Economia e Finanza all’Università Statale di Brescia, Trecroci prima di rientrare in Italia si è formato in Gran Bretagna, Europa e Stati Uniti. Si è laureato in Scienze Economiche e Sociali col massimo dei voti all’Università della Calabria poi, grazie a una borsa di studio ha frequentato l’Università di Glasgow, esperienza che gli ha aperto la strada all’attività di perfezionamento delle ricerche in Economia monetaria e finanziaria e Politica economica, in varie università Uk e Usa e alla Federico II di Napoli.
Inizia a pubblicare su diverse riviste internazionali e avvia un periodo di ricerca alla Banca Centrale Europea a Francoforte. Nel 2000 si stabilisce a Brescia, vince un primo concorso all’Università come ricercatore, per poi stabilizzare il suo rapporto con l’Ateneo. Da sempre sensibile ai temi ambientali, nel 2005 inizia a collaborare con Legambiente, di cui successivamente diventa prima vicepresidente, poi presidente e componente del direttivo regionale, fino al 2018. Oggi, tra le altre cose, ricopre il ruolo di coordinatore del Comitato operativo del Css (Centro sviluppo sostenibilità), realtà bresciana che raggruppa oltre il Comune e la Provincia di Brescia, l’Università, Confindustria, Camera di Commercio, il colosso dell’energia A2A e la Fondazione Cab. I suoi interessi di ricerca e sviluppo spaziano dalla finanza alla macroeconomia, alla declinazione dello sviluppo sostenibile in chiave industriale e territoriale. Al lavoro, dunque, in uno dei luoghi più industrializzati d’Europa, provenendo da uno dei meno…
Professore, molti calabresi preferiscono studiare fuori regione, a Roma, piuttosto che Firenze o Bologna. Lei ha deciso invece di farlo in Calabria, per poi, dopo una borsa di studio, essere proiettato a Glasgow. Aveva già viaggiato fino a quel momento? Come ha vissuto questo cambiamento?
Le mie possibilità economiche, così come quelle di tante ragazze e ragazzi calabresi, ieri ancora più di oggi, erano limitate e già conseguire la laurea in Calabria rappresentava un traguardo eccezionale. Avevo però un desiderio immenso di conoscere il mondo e perseguire interessi e passioni, oltre che un percorso professionale stimolante e indipendente. E così, grazie alle risorse pubbliche e a una certa indole esplorativa, dopo la laurea sono riuscito a finanziarmi prima un anno, poi tre di specializzazione alla University of Glasgow, con una prospettiva letteralmente elettrizzante. Non trovo strano, o drammatico, che dal Sud, o da qualsiasi altro luogo, i giovani cerchino altrove la propria strada: la libertà, l’indipendenza e le opportunità di crescita che un periodo prolungato di vita e studio lontano dalla propria regione regalano alle persone, è un dono prezioso sia per chi lo riceve direttamente, che per i loro luoghi di origine. La Calabria, e in una certa misura l’Italia, soffrono per molti aspetti di un terribile provincialismo. Il limite vero, semmai, è che la Calabria non riesce ad attrarre e richiamare abbastanza talenti, né quelli esterni, né quelli “potenziati” da periodi di studio o lavoro fuori regione…
Ha trascorso quattro anni in Europa, tra Gran Bretagna e Germania, è stato negli Stati Uniti, ha lavorato come ricercatore alla neonata Banca Centrale Europea. Perché ha deciso di tornare in Italia?
Per un complesso di ragioni, personali e collettive. Innanzitutto, la voglia di tornare a una qualità della vita e a un patrimonio intellettuale e relazionale che, ancora oggi, penso siano tra le cifre distintive del nostro Paese. Poi, sentivo il bisogno di dare il mio piccolo contributo al nostro Paese a riprendersi dalla situazione di profondo degrado etico e sociale in cui è finito negli anni ’80 e ’90. Mi ero illuso che le forze migliori avrebbero potuto unirsi e dare all’Italia una svolta di competenza, solidarietà, senso del bene comune. Di fatto, abbiamo visto affermarsi il contrario: una sorta di mediocrazia e opportunismo truffaldino che ne hanno accentuato la deriva sociale ed economica. Non nascondo di essere oggi preoccupato, quanto amareggiato: con la crisi pandemica e la catastrofe climatica, i danni dell’analfabetismo funzionale e della mancanza di visione di una fetta considerevole dell’elettorato, sono diventati ancora più evidenti.
Economia e ambiente. Quando nasce la passione per l’una e quando per l’altra?
Credo sia nata con la mia adolescenza in campagna. L’amore per la natura e la conoscenza diretta della sua bellezza, dei suoi ritmi, della sua fragilità, mi hanno appassionato molto presto; e poi già nel corso degli studi scolastici ho iniziato a comprendere che viviamo un rapporto squilibrato, da ripensare. Non è solo la finitezza delle risorse naturali, e nemmeno la compassione ispirata dall’osservazione delle grida di allarme per il loro degrado. È la consapevolezza che finché la società non trova un modo equilibrato di rapportarsi con l’ambiente e l’ecosistema, non potrà essere in grado di garantire eguaglianza sostanziale e sviluppo per sé stessa. La questione ecologica è intrinsecamente anche una vicenda di contrasti e conflitti redistributivi: distorsioni e ingiustizie socioeconomiche hanno come ulteriore, fatale implicazione, quella di dissipare, sconvolgere gli equilibri naturali. A nostro danno, come e più che per la Natura.
Nel corso dei suoi studi ha perfezionato le conoscenze di Economia monetaria e finanziaria e Politica economica, con pubblicazioni su riviste internazionali. Come si conciliano questi studi con i temi ambientali e la sostenibilità?
Nessun conflitto, anzi. La scienza economica si interroga di continuo sulla coerenza e la capacità esplicativa del proprio apparato teorico, rispetto alla realtà. E oggi, finalmente, stanno maturando importanti cambiamenti, che aspettavo da anni, nel modo in cui la teoria economica si pone rispetto al capitale naturale e al valore delle risorse finite. Sta nascendo una considerazione più equilibrata di questi valori anche nelle scelte finanziarie e nelle decisioni di Politica economica. È un percorso ancora agli inizi, ma in parallelo alla crescita diffusa della sensibilità verso questi temi, perfino gli economisti possono vedere con nuovi occhi…
G20 e Cop26. Il cambiamento climatico sembra finalmente entrato nei dibattiti tra gli Stati come tema prioritario. Ma le scelte sembrano poco coraggiose rispetto a quello che sarebbe necessario fare. Che ne pensa?
La transizione ecologica e le altre trasformazioni verso una crescita economica equilibrata e rispettosa delle compatibilità ecosistemiche sono iniziate da tempo. Tuttavia, a livello sia globale che locale, per la velocità e la profondità con cui stanno avvenendo questi cambiamenti, sono insufficienti. La scienza del clima ci dice che non abbiamo che pochissimi anni per ridurre le emissioni, in modo da scongiurare danni fisico-climatici e alla biodiversità irreversibili e costosissimi. D’altra parte, già oggi i costi sanitari di inquinamento atmosferico, contaminazione delle acque, degrado dei suoli, sono ingentissimi, nei Paesi avanzati come in quelli in via di sviluppo. Non c’è alternativa ad un ripensamento profondo del nostro rapporto con il capitale naturale, e rinviare o rallentarlo significa solo far crescere i costi futuri nell’inevitabile aggiustamento. Mi auguro che cittadini e governi comprendano la necessità e l’urgenza di un’accelerazione, a partire dalla mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici.
Pandemie e cambiamenti climatici. Che rapporto c’è?
Il rischio di epidemie è aumentato enormemente in un mondo dove il delicato equilibrio tra uomo e germi viene alterato da diversi fattori, tra i quali i cambiamenti degli ecosistemi e del clima. L’idea che siano semplicemente gli animali esotici provenienti dalle foreste tropicali e da altri ambienti naturali ad ospitare e trasmettere virus e patogeni che conducono nuove patologie negli esseri umani, è una banalizzazione scientificamente infondata. La ricerca conferma, invece, che è la distruzione della biodiversità che crea le condizioni per l’emergere di nuovi virus e malattie. I focolai di malattie infettive (negli ultimi 20 anni: SARS, H1N1, Zika, Ebola, MERS e ora SARS-COV2) sono in consistente aumento: tre quarti delle malattie emergenti che infettano gli esseri umani hanno origine animale (zoonosi). I patogeni compiono il salto dalle specie animali agli esseri umani, e poi si diffondono rapidamente verso nuove aree. Queste patologie sono direttamente o indirettamente legate ai cambiamenti ambientali e al comportamento umano. La distruzione delle foreste vergini a causa di disboscamento, estrazione mineraria, costruzione di strade e urbanizzazione veloce, così come la crescita demografica, pongono le persone a contatto ravvicinato con specie animali e ambienti naturali mai frequentati prima. Quindi, la distruzione di biodiversità è il generatore principale dei patogeni, mentre i meccanismi di amplificazione di questi replicatori darwiniani in rapida evoluzione (virus e batteri) sono l’intrusione umana in un numero crescente di ecosistemi vergini, il sovrappopolamento, la frequenza e rapidità di spostamento di persone e merci. Ripensare l’economia, è un atto di razionalità collettiva, mi sembra.
Veniamo alle sue origini: che cosa si porta dentro della Calabria?
I valori che i miei genitori mi hanno regalato. L’onestà, l’umiltà, la generosità, l’etica del sacrificio e del lavoro, il senso di giustizia, il calore umano. Porto anche quella che considero la parte migliore della nostra regione, che non è nelle sue pur strepitose meraviglie naturali o in alcuni suoi monumenti; ma nella capacità di resistere alle avversità, nella perseveranza, nella tenacia che diventano forti anche quando le origini sono modeste, e forse proprio per quello. Resta, però, la necessità, oltre che la voglia, di vedere compiersi un cambiamento: i calabresi hanno bisogno di dare un taglio più netto a tante loro attitudini e abitudini, a partire da un’inaccettabile compiacenza di taluni con la mediocrità e con il malaffare.
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