13 Giu Da Crotone a Buenos Aires, la grande scuola pianistica di Vincenzo Scaramuzza Nel ricordo di cristina filoso
Intervista alla pianista argentina apprezzata allieva dell’illustre maestro calabrese naturalizzato bonairense, i cui principi musicali hanno guidato straordinari interpreti e affascinato anche il celebre Arthur Rubinstein.
di Angela Floccari
Vincenzo Scaramuzza, natali a Crotone 135 anni fa, nel 1907 compie il grande salto in Argentina per un importante incarico di docente nella succursale del “Santa Cecilia” a Buenos Aires, dove rimane tutta la vita (muore il 24 marzo 1968). Lì ribattezzato “Vicente”, nel corso di decenni di apprezzato insegnamento forma una schiera di eminenti pianisti, ancora oggi universalmente noti ed attivi Per ricordare Scaramuzza e la sua straordinaria scuola pianistica, abbiamo raggiunto Cristina Filoso, sua allieva diretta, molto legata al maestro e all’Italia per ragioni culturali e familiari (argentina di nascita con nonni paterni e materni italiani).
La Filoso, attiva come solista e come componente del Trío Clásico di Buenos Aires e poi anche in duo con importantissimi nomi del concertismo come Christine Walevska, Mark Peskanov e Peter Thomas, ha suonato nei maggiori teatri del mondo e i suoi concerti sono stati trasmessi da emittenti radiofoniche e televisive nazionali. Da Buenos Aires, dove vive insieme al figlio Sebastián Zoppi, primo dei secondi violini al Teatro Colón, e dove violinista è stato anche suo padre, ci racconta il “suo” Scaramuzza e il rapporto artistico col maestro, fondamentale per la sua formazione e la sua carriera, per lei cresciuta, come si dice, a ‘pane e musica’ (pianista pure la madre).
Ed eccoci allora nel vivo del nostro discorso, con la Filoso molto amichevole e pronta al “tu” nel raccontarci qualcosa in più su Vincenzo-Vicente Scaramuzza, straordinario artista alla cui scuola si sono forgiati grandi virtuosi della tastiera fra cui Francisco Amicarelli, Martha Argerich, Enrique Baremboim, Antonio De Raco, Bruno Gelber, Sylvia Haydée Kersenbaum, Maria Rosa Oubina de Castro, Carmen Scalcione, Elizabeth Westerkamp, Fausto Zadra e molti altri. Il grande compositore Giuseppe Martucci sottolineò “il gioco genialissimo” del giovane Scaramuzza esecutore, che seduto al piano faceva “dell’instrumento un’orchestra”. Anche il celebre concertista Arthur Rubinstein, che non fu suo allievo, ma che ebbe modo di conoscerlo, espresse grande apprezzamento e considerazione per la sua maestria.
Cominciamo dal principio: Cristina, ricordi la prima volta che hai incontrato il Maestro Scaramuzza?
Sì, incancellabile il pomeriggio in cui mio padre mi accompagnò da lui: prendemmo un bus e poi il treno. Mi pareva un sogno… Ero nervosa. Avevo preparato un’importante composizione di Bach. Dopo che finii di suonarla, con mia grande emozione, iniziarono subito le lezioni. Non riuscivo a crederci…
A che età hai incominciato a lavorare con lui?
Ero piccola, non ancora adolescente.
Sapevi che lavorare con lui ti avrebbe cambiato la vita?
Avevo saputo che era un genio, musicalmente e artisticamente: davvero un grande maestro, e anelavo ad imparare da lui. Ero pronta a studiare seriamente per realizzare quello che lui pretendeva per forgiare un’interprete, per farne un bravo e completo artista.
Quante volte andavi a lezione?
Il programma prevedeva una volta la settimana, ma mi volle ascoltare tutti i giorni, domeniche comprese! Io andavo a lezione felice, nonostante il viaggio ogni volta di un’ora e mezza…
Su cosa era particolarmente pignolo?
Praticamente su tutto! Molto meticoloso su ogni nota, ogni movimento delle braccia, dita, muscoli… Per noi non era necessario possedere nozioni di anatomia, ce le trasmetteva lui! Oltre a insegnarci come ottenere il suono, l’uguaglianza delle dita, le relative tecniche. Suonare bene, ci faceva capire, non era solo un fatto fisico. Non si trattava, dunque, di eseguire il brano con i giusti movimenti del corpo: bisognava soprattutto saper “fare musica” con la ricerca della perfezione in ogni nota.
Sapevi di avere a che fare con un maestro che sarebbe rimasto nella storia?
Sì, quando sono arrivata io aveva già formato celebri pianisti.
Se dovessi racchiudere in pochi aggettivi la sua personalità, quali useresti?
Esigente, dedito, sensibile, generoso. E geniale.
Ti ha mai parlato della sua terra d’origine, la Calabria?
Ero piccola e non mi raccontava di sé, ma ricordava spesso i maestri della scuola napoletana Rossomandi e Cesi ed in particolare Giuseppe Martucci, che stimava molto.
La scuola pianistica di Scaramuzza: cosa aveva di diverso, di peculiare, rispetto alle altre di fama internazionale, come per esempio quella di Vitale a Napoli?
Per me e anche per molti pianisti, la sua scuola era la migliore. Giunta a grandi livelli nel tempo, e riuscita nello scopo di ottenere dai suo allievi un suono particolarmente elegante e raffinato, lavorando sull’anatomia delle braccia, il polso, il rilassamento, l’energia e il “peso” appropriato su ogni nota.
Ci potresti spiegare come ti faceva avvicinare e poi approfondire un brano nuovo?
Lentamente. Per utilizzare e fissare tutti i concetti anatomici e musicali che ci illustrava su un quaderno. Appresi questi, si doveva eseguire al tempo indicato dal compositore.
É vero che affrontava i problemi tecnici a partire dal testo musicale?
E’ vero. Dipendeva dalla difficoltà tecnica e dalle effettive e peculiari “necessità” degli studenti.
Nella tua attività trova spazio anche l’insegnamento. Hai trovato qualche elemento di novità, tuo personale, da proporre ai tuoi allievi?
Sì, quando insegno applico esattamente e totalmente quello che mi ha trasmesso Scaramuzza, ma senza privarmi di qualche “illuminazione” personale.
Scaramuzza era anche dedito alla composizione, che lo appassionò altrettanto.
Amava comporre per il pianoforte e non solo. Negli ultimi anni della sua vita ha lavorato intensamente alla sua opera ‘Hamlet’, di cui fu eseguita l’Ouverture al Teatro Colón di Buenos Aires nel 1961.
Hai interpretato magnificamente alcune sue Mazurke. Che opinione hai di questi brani?
Molto ispirate e romantiche, sono composizioni meravigliose, le amo profondamente. Meriterebbero, a mio avviso, maggiore conoscenza e popolarità.
Prima di arrivare da Scaramuzza, si narra che per qualcuno fosse necessario prendere lezioni dalla moglie e dalla sorella. Una sorta di “viatico”.
Non so se fosse obbligatorio, ma so che è capitato e che l’hanno effettivamente aiutato nella didattica. Quando ho iniziato a studiare con lui, loro non c’erano più.
Da vero perfezionista, Scaramuzza si soffermava anche una lezione intera su poche battute. Secondo te, quali vantaggi aveva questo approccio da “miniaturista” nella resa musicale finale? In che misura pensi questa “dilatazione” dei ritmi di lavoro giovasse alla qualità del risultato?
Non ho vissuto questa prassi in prima persona, ma ho ascoltato altri allievi suonare in tutta la lezione lo stesso pezzo breve. Questa apparente “dilatazione” portava a risolvere non solo i problemi tecnici di quel pezzo, ma anche a generare “tocchi” diversi da applicare in altri lavori che lo avessero richiesto. La qualità del risultato finale era ottima, con assoluta sicurezza.
Volendo sintetizzare con poche parole la vera essenza della sua scuola pianistica, come la descriveresti?
Sintetizzare è molto difficile, ma si può dire che utilizzava i mezzi più vari e tutto era al servizio della musica. Era questo ciò che gli interessava.
Cosa aveva Scaramuzza di italiano e cosa di argentino? E cosa in lui predominava?
Predominava l’italianità, ma amava molto l’Argentina. Aveva un temperamento molto forte, proprio degli italiani del Sud, come mio nonno paterno che era un bravo tenore napoletano. Era un’epoca diversa, si esigeva molto, ma a me piaceva e piace tutt’ora il suo metodo, che associo a quello di Arturo Toscanini, che aveva un carattere simile
La sua famiglia, gli altri allievi, raccontaci qualcosa…
Con altri allievi e anche con i suoi familiari ricordiamo aneddoti di quei bei tempi: episodi personali, cose specifiche del suo insegnamento. Quando Bruno Gelber veniva in Argentina, il maestro sceglieva sempre un allievo da fargli sentire, ed io ho suonato spesso per lui. Con Bruno ci sentiamo quasi tutti i giorni, chiacchieriamo e spesso ceniamo insieme, la nostra è una meravigliosa amicizia e rappresenta un punto fermo per entrambi.
L’ambiente intorno a Scaramuzza: la sua casa, gli arredi suo studio. Riportaci indietro…
Ricordo che dall’ampio balcone arrivava nello studio molta luce, e accanto al pianoforte, ecco la poltrona del Maestro. Quadri e fotografie di famiglia, il suo Hamlet sempre a portata di mano, la biblioteca. Ma soprattutto un profumo particolare, una fragranza che non ho mai più sentito da nessuna parte.
Che opinione di te pensi avesse il maestro?
I suoi familiari mi hanno raccontato che a pranzo parlava spesso di una mia particolare sensibilità… Averlo scoperto mi ha emozionata!
Un aneddoto divertente da raccontarci…
Una volta arrivai in anticipo a lezione mentre stava suonando una sua alunna. Gli chiesi di poter entrare nello studio per ascoltarla, come lui d’altronde lasciava fare sovente ad altri suoi alunni quando suonavo io. Mi colse di sorpresa, dicendomi: “Non ne vale la pena… Aspetti pure fuori”. Per me fu una cosa curiosa. Ma non deve esser stato divertente per l’allieva…
Come ti sei sentita quando è mancato?
La dipartita del carissimo maestro Scaramuzza è stata difficile e dolorosa da superare, con un senso di vuoto e di inconsolabilità che ho avvertito per vari anni. Lo porterò per sempre nel cuore e nel mio pianismo, nella mia maniera di fare e pensare la musica.
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