
19 Ago CENT’ANNI DI SOLITUDINE DI UN …CALABRESE A MACONDO
La storia di don Antonio Daconte, emigrato originario di Scalea che ha ispirato al premio Nobel per la letteratura Gabriel Garcia Màrquez il personaggio di Pietro Crespi nel suo più celebre romanzo, ricostruita e raccontata in uno spettacolo teatrale da Leonardo Gambardella.
di Roberto Messina

Quando ho scoperto che Pietro Crespi, l’elegante e intraprendente italiano raccontato nel più famoso libro di Marquez, arrivato nella mitica Macondo a portare gentilezza, amore, musica e cinema, era in realtà ispirato a don Antonio Daconte, partito da Scalea, il mio paese, ho avuto subito il desiderio di portare questa eccezionale storia in teatro…
Così Leonardo Gambardella 46 anni, a Roma ad occuparsi di teatro da oltre 20 come attore, regista, insegnante, e in questa occasione anche come autore del copione, in un percorso molto appassionante che gli ha fatto recentemente scoprire un pezzo di storia del suo luogo natio incolpevolmente ignorato. Lo abbiamo incontrato nella “Caput Mundi” per un approfondimento sulla storia di Daconte e di questo suo importante spettacolo.
Pasquale Lanzillotti, grande animatore culturale dell’Alto Tirreno cosentino – racconta Gambardella – mi ha presentato il professore di storia contemporanea Vittorio Cappelli, uno dei massimi esperti di emigrazione calabrese in particolare in Sud America. Nel suo libro ‘Storie di italiani nelle altre Americhe’ (Rubbettino), riporta che Gabriel Garcìa Màrquez ha dichiarato che per il personaggio italiano raccontato in “Cent’anni di solitudine” è inventato pensando a don Antonio Daconte, emigrato da Scalea alla fine dell’800, cui Marquez nel romanzo cambia il nome con quello di Pietro Crespi tratteggiandone figura, storia e carattere di fondo, ma con “varianti” e “invenzioni” biografiche di fantasia che lo spingono appunto ad adottarne uno nuovo, non totalmente riconducibile.

(foto dal libro di Vittorio Cappelli “Storie di italiani nelle altre Americhe”, Rubbettino editore)
Antonio Daconte, dunque, da Scalea imbarcato a Genova sul vapore Olinda Rodriguez nel 1885 diretto a Panama, si reca poi in Colombia, per stabilirsi e prosperare ad Aracataca, città natale e “senza frontiere” del celebre scrittore latinoamericano, crogiuolo di razze e di avventurieri, uno tra i villaggi prosperosi della regione caraibica del Magdalena, sede tra l’altro della United Fruit Company, che ne fece un grande centro di produzione bananiera mondiale. Qui Daconte (cognome vero D’Acunti, poi trasformato come sovente accadeva agli emigrati) dopo aver aperto un bel bar nella piazza centrale ed essersi impegnato in varie fruttuose attività commerciali coltivando parallelamente le sue grandi passioni per le biciclette, i grammofoni ed i primi apparecchi radio destinati evidentemente a sorprendere la popolazione locale e il futuro scrittore, pensò pure di aprire il primo cinema… Il Salon Olympia, in cui il futuro premio Nobel, affettuosamente detto anche “Gabo”, ancora bambino, assisterà per la prima volta al grande prodigio delle immagini in movimento.
Questa e altre esperienze nella sperduta ma poeticamente centrale Aracataca, brodo di coltura di Marquez che com’è noto dichiarò convintamente che “non c’è una riga dei mie libri che non abbia la sua origine nella mia infanzia“, sono alla base di quel “realismo magico” che ha fatto la sua fortuna e che ha reso Macondo paese mitico, luogo ideale in cui le culture si fondono e si rigenerano. “E non è un caso dunque che oggi – spiega il prof. Cappelli – nella Casa-museo dedicata al premio Nobel dal municipio di Aracataca, si conservino , tra i tanti oggetti del primo Novecento, i due proiettori importati da don Antonio Daconte per il Cine Olympia“.
Ebbene, questo scaleota, nato esattamente cent’anni prima di me, a Macondo c’era arrivato dispiegando grande umanità, classe ed energia – spiega Gambardella -. L’incontro con Cappelli è stato per me illuminante anche per il punto di vista “rivoluzionario” sull’emigrazione. L’emigrante cencioso che parte con la valigia di cartone è infatti solo un’immagine superficiale, stereotipata, di un fenomeno che è molto più vasto e che annovera piccoli e grandi successi, storie di uomini e donne che sono stati capaci di riscattarsi, di realizzare il proprio talento, una dote che quasi sicuramente sarebbe rimasto inespressa nei paesi di origine. Daconte è allora il simbolo di un emigrazione positiva, se mi è consentito il termine, di chi è stato capace di integrarsi e di generare fermenti culturali attivi”.
Lo spettacolo parla di questo?
Sì, ma raccontare un’emigrazione diversa è stato il vero punto di partenza dell’operazione. Volevo offrire attraverso il personaggio di Don Antonio una possibilità di riscatto per tutto il dolore, la sofferenza, le umiliazioni che l’emigrazione ha rappresentato per l’Italia e per la Calabria. E’ uno spettacolo che si rivolge in particolare e con affetto ai calabresi. Sono contento che il suo debutto sia stato nel bellissimo festival “Primavera dei Teatri” di Castrovillari.

Da dove parte il tuo interesse per le storie degli emigranti?
Sicuramente da mia zia Elvira. Lei emigrò da Verbicaro, un piccolo paese tra le montagne in provincia di Cosenza, fino a San Francisco. E quando tornava con i suoi vestiti colorati, così diversi da quelli di mia nonna e delle mie zie, e il suo strano modo di parlare mischiando vecchie parole in dialetto all’inglese, era un festa. Mi piaceva ascoltare le sue storie di deserti immensi e città enormi. E’ morta lo scorso anno a San Francisco, a 93 anni, l’ultima di nove fratelli. Quasi ogni famiglia, in Calabria conserva una storia di emigrazione, a volte sono sepolte nel dolore della separazione, della perdita, ma è sempre un patrimonio comune per noi calabresi. Il teatro ha il potere di raccogliere il contenuto emotivo di questa storia che altrimenti si ridurrebbe alla sola aridità dei numeri (pure enormi, sono decine di milioni gli italiani che sono emigrati), a date, a flussi…

(ph Gaetano Gianzi)
Antonio Daconte-Pietro Crespi, non è solo un uomo che ha successo lontano dal proprio paese, è il simbolo dell’eleganza, è colui che nel romanzo porta “l’amor ch’al cor gentil ratto s’apprende”, non quello selvatico e animalesco degli altri uomini di Macondo. Crespi, sempre profumatissimo, è la musica, la poesia, il (melo) dramma. E tutto questo che sboccia a Macondo nelle pagine indimenticabili di uno dei massimi capolavori della letteratura mondiale ha le sue origini, il porto di partenza, in Calabria, a Scalea, il mio “borgo selvaggio”.
Tu e Scalea…
Ho vissuto a Scalea dai 6 ai 18 anni. Sono andato via per l’università, poi l’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, ma sono sempre tornato. Non mi sono mai sentito di “appartenere” a Scalea, detto senza offesa, perché per dire il vero non mi sento di appartenere a nessun posto… Questo mi fa sentire comunque assai vicino ai miei corregionali calabresi, gente in viaggio, come li definiva Saverio Strati. Ad un certo punto ho sentito il bisogno di tornare, e non per sfoggiare le competenze acquisite, ma al contrario per il bisogno di conoscere la mia terra e me stesso. Sono tornato così a fare il mio lavoro, ho collaborato con il Teatro Rossosimona di Rende, il Teatro Stabile di Calabria, il Peperoncino Jazz Festival. Ho fondato a Scalea l’Associazione culturale ‘Agire Col Teatro’ che opera su diverse tematiche sociali come la violenza contro le donne, l’inclusione scolastica, il diritto alla felicità.
Parlaci ancora di questa tua pièce.
Nata da una grande utopia: Pasquale Lanzillotti gestiva le attività culturali del Palazzo rinascimentale di Aieta, un vero gioiello nascosto ai piedi del Pollino. La sua idea era di farci un Centro permanente per le arti, voleva produrre spettacoli, creare residenze artistiche, offrire ai giovani della zona l’occasione di apprendere musica, arte, danza, teatro con professionisti di livello nazionale. Una magnifica pazzia… Ci siamo trasferiti ad Aieta con Chiara Cimmino Sander ed Elena Fazio, le altre due attrici che con me hanno portato in scena lo spettacolo, con l’assistenza cruciale di Valerio Vittorio Garaffa. Ricordo che una sera, mancavano pochi giorni al debutto, salta l’impianto elettrico forse a causa del carico dei proiettori. Abbiamo provato lo stesso, al buio, nella grande sala del Palazzo, circondato dai boschi. E’ stata la prova più emozionante della mia vita. Purtroppo del progetto ad Aieta non se n’è fatto nulla e lo spettacolo dopo qualche replica tra Calabria e Basilicata non ha avuto l’adeguato sostegno distributivo per continuare il suo viaggio. Peccato! Mi sarebbe piaciuto attivare un laboratorio sull’emigrazione, viaggiare nei paesi calabresi e raccogliere le testimonianze, raccontare le storie nascoste, dare voce alle emozioni, con il teatro che può molto in questo senso.
Altri progetti?
E’ un momento difficile, non si sa bene cosa troveremo di quello che abbiamo lasciato prima che scoppiasse questa pandemia. In concomitanza con la nascita dei miei figli, mi sono dedicato ad insegnare agli studenti di teatro. Insegno l’uso della voce, non la dizione corretta, ma come permettere alle emozioni di esprimersi a pieno attraverso la voce; è un metodo che viene dagli Stati Uniti, si chiama Linklater. Sono andato a studiarlo a New York, l’ho approfondito fino a diventare uno dei pochi insegnanti autorizzati che operano in Italia. Mi piace molto lavorare con giovani attori, seguirli nel processo creativo, aiutarli a comprendere che la tecnica non è mai separata dall’emotività. Mi manca un po’ l’adrenalina della scena, ma so che presto tornerò a fare attivamente teatro. E’ un amore a cui non so resistere…
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La vicenda di Daconte. E’ raccontata da Vittorio Cappelli, professore di Storia contemporanea all’Università della Calabria ed esperto di storia dell’emigrazione, nel suo libro “Storie di italiani nelle altre Americhe” che ha ispirato uno spettacolo teatrale che si avventura nell’oceano di Garcia Màrquez con il coraggio e la curiosità dei viaggiatori degli inizi del Novecento che salivano sui piroscafi per andare a “fare” l’America. Daconte lascia il suo piccolo paese in Calabria e si ritrova ad Aracataca, città natale di Garcia Màrquez, a tutti nota con il nome di Macondo, dove agli inizi del ‘900 aprirà il primo cinema, el Salon Olympia, in cui lo scrittore ancora bambino assisterà per la prima volta al prodigio del film. Macondo è il palcoscenico dove i ricordi trovano corpo, dove il sogno trova il suo compimento e la realtà diventa magica. Daconte non è solo un uomo che ha fatto fortuna, ma il vettore che a Macondo porta una cultura millenaria, silenziosa, che nelle pagine di Màrquez possiamo riconoscere, apprezzare e comprendere. Macondo è “un luogo dell’anima”, e solo chi parte e conosce la nostalgia, può arrivarci.
La trama. Nella Colombia magica e misteriosa degli inizi del Novecento, don Antonio Daconte fa fortuna proiettando nel suo Salon Olympia le pellicole cinematografiche che si fa arrivare dal vecchio mondo. Le immagini in movimento rapiscono Antonio che si identifica con il protagonista del film e si ritrova coinvolto in una complicata storia d’amore. Le emozioni suscitate dal film gli richiamano alla memoria, Cettina, la donna amata in Calabria, che improvvisamente irrompe dallo schermo per inchiodarlo al suo passato.
Lo spettacolo. E’ prodotto dall’Associazione Culturale F.I.L.M.A.S., che sta promuovendo il progetto di Residenza teatrale nel Palazzo rinascimentale di Aieta, proponendo storie di cultura calabrese localizzate lungo l’alto Tirreno fino ai piedi del Pollino. Lo spettacolo ha debuttato alla XII edizione del festival Primavera dei Teatri di Castrovillari il 5 giugno 2011.
Leonardo Gambardella. Dopo essersi diplomato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” di Roma, ha completato la formazione studiando a Londra (Actor’s Centre) ed a New York (The Linklater Center for Voice and Languagge). Lavora come attore di prosa alternando esperienze di teatro classico (“Assassinio nella cattedrale” di T. S. Elliot regia di M. Ferrero, “Ruy Blas” di V. Hugo regia di Luca Ronconi al Teatro Argentina, “Antigone” di Sofocle regia di Irene Papas al teatro Greco di Siracusa) e spettacoli di ricerca nei “teatri Off” romani dove ha lavorato con i registi: Fortunato Cerlino, Alessandro Fabrizi, Massimiliano Civica. Nel 2004 ha vinto il premio “originalità ed efficacia” con il monologo “Fotografia assoluta” scritto, diretto e interpretato al festival “Il monologo ed i suoi linguaggi” organizzato dal Piccolo Teatro Re di Roma. Dal 2006 presenta “Duke Duet”, prodotto dal Peperoncino Jazz Festival, incontro tra teatro e musica jazz, per raccontare il genio di Duke Ellington visto da un italo-americano che fa rientro in Calabria.
Titolo: Un italiano a Macondo
Durata: 70 min.
Scritto e diretto da: Leonardo Gambardella
Con: Chiara Cimmino Sander, Elena Fazio, Leonardo Gambardella
Aiuto regia: Valerio Vittorio Garaffa
Musiche originali: Guido Sodo
Scene e Costumi: Vittoria Gallori e Pasquale Lanzillotti
Foto: Daniele Brandimarte
Produzione: Filmas
Consulenza storica: Prof. Vittorio Cappelli